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Varese, "come li ho beccati": la pettegola inguaia il prete col "vizietto"? Finisce malissimo

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Claudia Osmetti
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Un prete. Una vedova con una figlia. Le continue visite a casa della donna e i vicini che si lanciano occhiate di intesa. Ma-vuoi-vedere-che... E poi la provincia. Quella provincia che, in questo caso, è l'hinterland di Varese, in Lombardia, ma che potrebbe tranquillamente essere il Fiorentino o il Romano o (perché no?) il Napoletano. Non è mica una questione geografica. L'Italia profonda, dei paesini dove ci si conosce un po' tutti e un po' tutto dà scandalo. Figuriamoci se di mezzo c'è un sacerdote il cui confessionale trabocca di pettegolezzi. Perché la gente parla, borbotta. Ne girano talmente tante, di chiacchiere, su di lui e sul suo abito talare. Dicono che conviva more uxorio con una donna che ha recentemente perso il marito. Che parcheggi regolarmente l'auto sotto il suo palazzo, segno che è sempre lì: nel suo appartamento. Che l'accompagni a fare shopping, magari pure in vacanza, che le porti a spasso il cane. E dicono, addirittura, che a guardare bene, sì: sembra proprio esserci una "strana" somiglianza tra lui e la figlia di questa vedova. Una bambina che è una minore e non c'entra un tubo.

 

 

ZERO DISCREZIONE
Non c'entra perché il don si sottopone (volontariamente) al test del dna e i risultati sono lì da vedere, allegati a una querela che trascina in tribunale un'avvocatessa. Per diffamazione, sostiene il parroco, perchè lei, la legale (c'è anche una civilista nella trama di questa storia che pare uscita da un romanzo di Guareschi) scrive alla Diocesi. Al vescovo, al vicario episcopale. Perfino al Vaticano. Vuole solo vederci chiaro. Ma parte il tiremmolla (i fatti sono del 2017, il giudizio è ancora in corso): «La mia assistita è una donna credente che si è posta una domanda legittima perché un pastore, per chi ha fede, è una figura di riferimento che deve rappresentare dei valori e dei principi. Lo sostiene anche il diritto canonico», racconta il difensore dell'imputata, l'avvocato Mauro Pagani.

C'è un faldone aperto, a Varese, davanti al giudice di pace Fabio Del Re. Le lettere inviate alla Curia da una parte, l'accusa di diffamazione e il risultati del dna dall'altra. «La mia vocazione è la mia vita», commenta il prete in prima persona, davanti al magistrato e sulle pagine del quotidiano locale La Prealpina, «ed è stata messa in discussione per qualcosa che non ho fatto. Tutto questo è infamante e mi ha ferito interiormente». «Nel 2018 il vescovo mi ha detto di evitare di incontrare quella famiglia», si sfoga, «di cui ero amico da quando la bambina frequentava l'oratorio per il catechismo e a cui mi sono sentito in dovere di essere di supporto morale e spirituale dopo che è morto suicida il padre». Però cominciano quelle voci, i condomini del palazzo in cui vive la donna ne discutono anche in assemblea e «facevo il cappellano militare, mi è stato chiesto di congedarmi: ho accettato per il bene dell'Ordinariato, ma è stata una scelta fonte di profonda frustrazione».

 

 

TUTTO È PERDUTO
Gli anni che passano. La pandemia, i lockdown, i mille problemi. Le udienze. E adesso anche la richiesta del prete per i danni patrimoniali perché, oltre all'incarico di capellano, ha perso anche lo stipendio (che è uguale a quello di un ufficiale dell'esercito). La donna e la figlia (che oramai tanto bambina non è più) si costituiscono parte civile al suo fianco. «Anche dagli atti dell'indagine, la descrizione dei comportamenti attuati è abbastanza curiosa», aggiunge l'avvocato Pagani, «ed è qui che si gioca il tutto, secondo me. Perché è lecito e, anzi, auspicabile che un sacerdote stia vicino a una famiglia provata dal dolore, ma come hanno testimoniato in tanti era presente a casa loro un giorno sì e l'altro pure. Tra l'altro le lettere che la mia assistita ha inviato, per chiedere chiarimenti e spiegazioni di una situazione che per lei era fonte di disagio, alle autorità religiose non sono state rese pubbliche. Per cui mi sembra fuori luogo parlare di diffamazione». Quel che è certo è che la provincia, quella provincia dove tenere un segreto è impossibile e dove ci vuole uno schiocco di dita per fare clamore, continuerà a parlare. Finché non arriverà a una sentenza.

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