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Biennale di Venezia, gli artisti pro-Gaza: "Via Israele dalla mostra"

Amedeo Ardenza
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Non si è ancora spenta né risolta la questione della partecipazione israeliana all’Eurovision, che si è aperto un altro fronte culturale - anzi due- contro Israele, sempre più indicato dalle élite culturali di mezzo mondo come il cattivo di turno, il capro espiatorio che permette a tutti di puntare l’indice, alzare la voce e sentirsi sollevati dalle proprie miserie e piccinerie. Si parte da Berlino: dallo scorso 7 ottobre il governo federale tedesco ha più volte sferzato l’antisemitismo aperto e quello mascherato da antisionismo, al punto anche da vietare le manifestazioni in cui generalmente masse di giovani musulmani di seconda e terza generazione invocano la liberazione della Palestina from the river to the sea, ossia dal Giordano al Mediterraneo con tanti saluti allo stato ebraico. Come un fiume carsico, l’odio verbale per Israele messo al bando nelle strade e nelle piazze è riapparso a sorpresa sul tappeto rosso della Berlinale, la prestigiosa rassegna di cinema del il freddo febbraio brandeburghese. Durante la cerimonia di premiazione sabato scorso ha fatto scalpore il regista statunitense Ben Russell che ha accettato il premio per il suo documentario Direct Action con una kefiah palestinese sulle spalle. «Naturalmente siamo per la vita e siamo contrari al genocidio, e per un cessate il fuoco in solidarietà con tutti i nostri compagni», ha scandito Russel deliziando il pubblico felice di poter finalmente battere le mani contro Israele. Riferimenti alla mattanza di 1.200 civili israeliani in poche ore lo scorso 7 ottobre? Nessuno.

Applausi anche per la coppia di registi israeliano e palestinese Yuval Abraham e Basel Adra premiati per il loro documentario “No Other Land” e per le belle parole pronunciate durante la premiazione, quando hanno parlato di «carneficina e massacro», ma solo dei palestinesi ché gli israeliani non sono vittime mai. Dopo qualche ora, hanno reagito sia il sindaco Kai Wegner sia Helghe Lindh, deputato della Spd (il partito del cancelliere Olaf Scholz) «Mi vergogno di vedere che nel mio Paese la gente oggi applauda le accuse di genocidio contro Israele». La sottosegretaria federale alla Cultura Claudia Roth, che poche settimane fa inaugurava pietre d’inciampo al Ghetto di Venezia, ha annunciato un’inchiesta. «Dobbiamo assicurarci che in futuro la Berlinale sia libera dai discorso d’odio, antisemitismo o islamofobia». Ma intanto la Bild infilava un dito nell’occhio a lei e uno al sindaco mostrando le immagini dei loro applausi al discorso del regista palestinese Adra e del suo collega Abraham, secondo cui in Israele c’è l’apartheid.

 


Con Berlino a dare l’esempio, l’Italia, provinciale, non poteva che seguire a ruota. E da Venezia, in zona Biennale e non Festival del Cinema, ma sempre di arte parliamo, si è alzata la voce di Anga, sigla di Art Not Genocide Alliance, un’alleanza di artisti che nel giro di poche ore ha raccolto oltre diecimila firme. La prima riga basta da sola a spiegare tutto il manifesto: «Noi firmatari chiediamo l’esclusione di Israele dalla Biennale di Venezia». Atrocità, «padiglione del genocidio», paragoni fra Russia e Israele e fra Israele e il Sudafrica razzista: l’armamentario dell’odio antisionista mascherato da solidarietà con i palestinesi è completo mentre dei crimini contro l’umanità compiuti da Hamas non v’è neanche l’ombra. Nel tranello dei pacifinti non è caduto il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano che all’Anga ha risposto: «Israele non solo ha il diritto di esprimere la sua arte ma ha il dovere di dare testimonianza al suo popolo proprio in un momento come questo in cui è stato duramente colpito a freddo da terroristi senza pietà». Difendendo lo spazio di libertà della Biennale, il ministro ha espresso la «più profonda solidarietà e vicinanza» allo stato ebraico.

 

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