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Giro d'Italia e Tour de France nel mirino degli antisemiti

Dario Mazzocchi
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Era il 12 agosto 2016, Olimpiadi di Rio De Janeiro: il lottatore israeliano Or Sassone batte il rivale egiziano Islam El Shehaby e, come gesto di sportività, va per stringergli la mano, ma lo sconfitto rifiuta: non si dà la mano ad un ebreo e lo sa bene il sollevatore di pesi iraniano Mostafa Rajai Langroudi, che l’anno scorso è stato punito dalla sua federazione per aver invece compiuto quel gesto naturale, la stretta di mano, con l’avversario arrivato da Israele ai Mondiali in Polonia.

Aprile 2024, qualcosa di nuovo bolle in pentola. A sette mesi dal tragico 7 ottobre che ha scatenato la crisi in Medio Oriente, c’è chi sta progettando di rovinare altri due eventi sportivi di portata internazionale come il Giro d’Italia e il Tour de France. È il movimento “BDS: Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni” contro Israele, fondato quattordici anni e spalleggiato da molti personaggi del mondo della politica, della cultura e dello spettacolo.

 

 

 

TOGHE COMPIACENTI

“Road closed to genocide”, strada chiusa al genocidio, è il nome della campagna lanciata in settimana che ha come obiettivo il team Israel – Premier Tech che già domenica scorsa, in occasione della Parigi-Roubaix, è stata presa di mira da alcuni aderenti al movimento. La mobilitazione riguarda da vicino l’Italia perché quest’anno il Tour attraverserà nella prima fase la Toscana, l’Emilia-Romagna e il Piemonte. «Questa non è la prima volta che l’UCI (Unione ciclistica italiana, ndr), il Giro d’Italia e il Tour de France si rendono complici della ripulitura dell’immagine di Israele attraverso lo sport e dei suoi gravi crimini contro i palestinesi», annuncia la pagina web di BDS Italia.

 

 


A SINISTRA

Quindi arriva la minaccia: «Facciamo appello per intensificare le proteste lungo le tappe del Giro d’Italia e del Tour de France. Assi curiamoci che le strade sia no chiuse a chi commette un genocidio». BDS può contare in Italia su molti sostenitori provenienti dagli ambienti di sinistra che negli ultimi mesi partecipano in prima fila alle manifestazioni per chiedere la fine degli scontri a Gaza: centri sociali, collettivi studenteschi, ma non solo. Trova terreno fertile in quell’area politica che non nasconde le proprie simpatie per la Russia di Putin, sperando magari che possa tornare ai fasti dell’Unione sovietica. E con questo spirito ha aspramente criticato l’esclusione degli atleti russi dalle competizioni dopo lo scoppio della guerra con l’Ucraina: un argomento scottante di stretta attualità, considerando che questo è l’anno dei Giochi olimpici di Parigi e da più fronti giungono le richieste perché la Russia resti esclusa. Eppure. Eppure se il diritto a gareggiare spetta ad Israele, allora non vale più. BDS non fa sconti a nessuno nella sua lotta contro Israele: ha osteggiato le nazioni arabe che hanno avviato tentativi di collaborazione con Gerusalemme. Ha criticato gli artisti palestinesi che operano con le istituzioni israeliane perché così facendo chiuderebbero gli occhi sulle atrocità commesse. Ha avviato una massiccia campagna di diffamazione contro le aziende che intrattengono rapporti commerciali con il grande nemico ebreo. E ha trovato appoggio in alcune sentenze di tribunali europei. In Germania la Corte federale ha affermato che la città di Monaco nel 2017 ha violato il diritto di dibattito quando ha negato l’utilizzo di un locale pubblico per una manifestazione organizzata dal movimento. Una pronuncia che fa seguito a quella della Corte europea dei diritti dell’uomo che nel 2020 ha ribaltato una sentenza della Corte suprema francese con la quale erano stati condannati alcuni attivisti per aver organizzato delle proteste nei centri commerciali per impedire la vendita di prodotti Made in Israel. Nell’ottica delle democrazie occidentali, la libertà di dissentire è - giustamente – ritenuta sacrosanta. Allo stesso modo, dovrebbe esserlo la libertà di partecipare ad eventi sportivi, evitando di punire gli atleti per le politiche dei loro Stati. A meno che qualcuno non pensi che la colpa di essere un ciclista israeliano meriti una lezione in mondo visione, mettendone a rischio l’incolumità fisica. Una specie di marchio di cui vergognarsi: un approccio che ricorda qualcosa di inquietante. 

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