
Ernesto Galli della Loggia e la bellezza della Roma del Ventennio

I lettori della saga romanzata M di Antonio Scurati, al pari degli spettatori della «volgarizzazione» seriale, capiscono qualcosa del principale protagonista – Benito Mussolini – del ventennio fascista? Perdono solo tempo! Non perderebbero tempo, invece, nella lettura di Una capitale per l’Italia. Per un racconto della Roma fascista (il Mulino, pp.240, euro 16). È un piccolo capolavoro della storiografia. Lo ha confezionato Ernesto Galli della Loggia. Studioso appartato, originale, lontano dalle mode, ricco di curiosità, documentato, mai sopra le righe nel giudizio, allergico a ogni forzatura ideologica, in possesso di un’accattivante scrittura.
Come giustamente ricordava Renzo De Felice, al quale si deve a tutt’oggi la migliore interpretazione complessiva del fascismo, lo «storico non può essere unilaterale, non può negare aprioristicamente le ragioni di una parte e far proprie quelle di un’altra. Può contestarle, non prima però di averle capite e valutate». Galli della Loggia parte da un presupposto: il fascismo ha trasformato la città di Roma, processo avviato già in età liberale, con la decisione della monarchia sabauda di elevarla a capitale del Regno. Per questa ragione la «città eterna» costituisce un’icona di paragone per giudicare cosa il fascismo è stato, e cosa ha rappresentato. Stessa tematica, ad esempio, affrontata, nell’ottobre 2017, dalla storica americana Ruth Ben-Ghiat in un lungo articolo apparso sul New Yorker. A Roma si sono preservate troppe tracce visibili del fascismo. Segno tangibile di «crimini urbanistici e archeologici» equivalenti ai «crimini politici». Occorre abbatterle. Come ricordava De Felice questa posizione è tipica della «storia ideologica», che ha scelto aprioristicamente di valutare prima di aver compreso.
ROMA DI PIETRA
Galli della Loggia si muove sulla via opposta. È impegnato a capire non a giudicare. Nel suo racconto ci conduce per mano nella «Roma di pietra» voluta da Mussolini. La Roma che vediamo oggi, soprattutto quella che ammira il visitatore, è ancora in buona parte la Roma sorta durante il Ventennio. Per volontà di Mussolini il regime intraprese una frenetica attività edilizia: edifici, piazze, monumenti, istituti culturali; ma anche palestre, campi sportivi, piscine, studi cinematografici. La «Roma fascista» divenne l’epicentro della «modernità totalitaria». Nell’Italia fascista si verificò il medesimo processo di riassestamento, definito di «ritorno all’ordine», dopo le spinte, spesso ardimentose, furiose, confuse e incomprensibili, delle avanguardie primo-novecentesche. Però il fascismo, a differenza delle coeve esperienze totalitarie, non impose un’arte di Stato.
In Unione Sovietica, a partire dal 1934, il «realismo socialista» divenne obbligatorio. E la Germania nazionalsocialista nel 1937 decretò, con la definitiva condanna dell’«arte degenerata», l’estromissione di ogni spinta modernista, in favore dell’estetica neoclassica e rurale. L’arte fascista, in tutti i segmenti, non pose limiti all’espressione di stili differenti. Razionalisti e futuristi rifondati. Strapaese e stracittà. Selvaggi e novecentisti. Nel 1923 Virgilio Guidi dipinge Tram. Il titolo del quadro rimanda ad un oggetto della modernità futurista, appunto il tram, strumento di attraversamento della «città del futuro», celebrato ad esempio da Corrado D’Errico nel collage di immagini in movimento Stramilano (1929). Guidi però inserisce il tram in un ambiente irreale, agreste, pastorale, sublime esempio di «realismo magico».
SARFATTI
La «Roma fascista» prende forma con i Fori Imperiali, la via del mare, il Foro Italico, lo stadio dei marmi, via della Conciliazione, la città universitaria, l’EUR. Nel 1929 Mussolini si trasferisce a Palazzo Venezia: accanto all’Altare della Patria, al Campidoglio e alle antiche rovine romane in prossimità del Colosseo. Giuseppe Bottai, diventato l’intellettuale di riferimento della cultura fascista, spodestando Giovanni Gentile, nel 1935 può affermare: «Roma è oggi la vera capitale dell’Italia».
Il processo di abbellimento e trasformazione della «città eterna» era stato largamente favorito da una geniale interprete della «modernità italiana», Margherita Sarfatti, ascoltata consigliera (nella nascita e consolidamento del regime fascista), cosmopolita, sofisticata conoscitrice delle tendenze artistiche europee più innovative e amante di Mussolini. Naturalmente la questione è complessa.
La «romanità fascista», visibile nella rigenerazione della capitale, sul piano storico si sarebbe sviluppata anche senza il suo apporto. Ma non vi sono dubbi che Margherita convinse Mussolini della necessità di abbattere quanto di Roma non la convinceva, riportando in vita le antiche vestigia imperiali e assegnando alla trasformazione urbanistica un’estetica monumentale capace di amalgamare l’antico con il moderno. De Felice, incontrando la Sarfatti nel 1961, ebbe la netta percezione che la donna era «malata di romanità», affetta da una vera e propria ossessione per «il senso delle forme classiche come motivo dominante della civiltà». Ovviamente oltre alle luci, nello studio di Galli della Loggia vengono ricordate anche le ombre. La «Roma fascista», forgiandone l’immagine moderna, creava una netta separazione tra il centro borghese e la periferia sottoproletaria. Un mondo a parte – l‘universo della «borgata» – al quale nel dopoguerra Pier Paolo Pasolini avrebbe conferito prima la parola, attraverso il romanzo, e successivamente l’immagine, attraverso il film di finzione.
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