La malattia dell'odio ostentata con orgoglio

Dell’odio il dizionario della lingua italiana scrive come di "una risoluta ostilità che implica di solito un atteggiamento istintivo di condanna associata a rifiuto, ripugnanza verso qualcosa, oppure un costante desiderio di nuocere a qualcuno"
di Francesco Damatolunedì 2 giugno 2025
La malattia dell'odio ostentata con orgoglio
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Dell’odio il dizionario della lingua italiana scrive come di «una risoluta ostilità che implica di solito un atteggiamento istintivo di condanna associata a rifiuto, ripugnanza verso qualcosa, oppure un costante desiderio di nuocere a qualcuno». Più che un sentimento, direi, una malattia, che può essere personale e persino sociale. Come la promossero i comunisti e simili teorizzando ed esercitando la lotta di classe. Che induceva sull’Unità del Pci persino il simpatico Fortebraccio, l’ex deputato della sinistra democristiano Mario Melloni, a liquidare come «lor signori» quelli di cui non condivideva le opinioni. «Ma non è odio», mi assicurò una volta che ne discutemmo. «È rispetto».

L’odio, ripeto, è una patologia, personale e sociale. Non ha pertanto avuto torto Giorgia Meloni ad avvertire e denunciare un «clima malato» nella maledizione di quel cosiddetto insegnante - pensate un po’ a cosa e come si è ridotta la scuola in Italia le ha mandato augurandole di perdere la figlia come Martina Carbonaro ad Afragola. Poi, ma una volta scoperto anche per altre navigazioni estemporanee in internet, il professore si è scusato, ma tenendo a rivendicare orgogliosamente la sua opposizione al presunto regime in atto. Quella dell’odio è quindi una malattia persino ostentata, neppure «nascosta nella moltitudine», come si è generosamente augurato Mario Sechi in modo forse scaramantico, vista la paura che egli avrebbe diritto di avere sentendosi dare, per esempio, del «bastardo» su un cosiddetto social per quello che scrive e dice.


È la paura, per esempio, che una sera di fine dicembre del 1989 avvertii varcando l’ascensore che doveva portarmi al mio ufficio di direttore del Giorno, a Milano e vidi affissa su uno specchio la riproduzione stampata di una foto del dittatore romeno Nicolae Ceausescu appena ucciso. E sotto questa domanda, sempre stampata, su un foglio bianco: «Quando verrà il turno di Francesco Damato, l’amico di Craxi?». Nell’ascensore, ripeto, di quello che a Milano si chiamava “il palazzo dei giornali”, in Piazza Cavour. Ma non finì li. Dal giorno dopo cominciarono ad arrivare al mio telefono di casa, per quanto non reperibile nell’elenco degli abbonati, messaggi laconici e minacciosi del tipo: «Il garofano sarà reciso». Come antipasto dell’esecuzione una notte fu versata e infiammata della benzina nell’androne del palazzo dove abitavo, a due passi dal Duomo. Il Questore di Milano m’informò di una scorta che avrei dovuto accettare, come ai tempi del terrorismo a Roma, quando lavoravo nella redazione romana del Giornale. Poi egli venne a trovarmi personalmente in ufficio per informarmi anche della richiesta avanzata alla magistratura di mettere sotto controllo la mia utenza telefonica. Ma qualche giorno dopo tornò, a dir poco imbarazzato, per comunicarmi il diniego giudiziario e rafforzarmi la scorta. Mi ero insomma cercata tutta quella esposizione, chiamiamola così, e potevo pure subirne gli inconvenienti.
Se questa è stata non l’unica, in verità, ma una delle mie personali esperienze con la paura, una volta persino come imputato di divulgazione di segreto di Stato consistente in un documento finito fra gli allegati dei rapporti conclusivi della commissione parlamentare d’inchiesta sulle connessioni internazionali del terrorismo, vi lascio immaginare le paure alle quali sono destinati nella nostra bella Italia, nel settantanovesimo compleanno della Repubblica, quanti hanno la disavventura di governare. Anzi, di governare, per quanto vincitori di regolari elezioni, senza il consenso di “lor signori”, come diceva pur allegramente l’indimenticabile e già citato Fortebraccio.