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Il centrodestra è ripartito: perché Angelino sarà premier

E' un leader cresciuto tra i democristiani: se riuscirà a recuperare anche l'Udc di Casini potrà fare molta strada / M. G. Maglie

Andrea Tempestini
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Tra la Jane Austen di “Orgoglio e pregiudizio”, che fa ben sperare per le donne brave che vorrebbero contare di più, oltre che garantire su buone letture, e un'atmosfera diffusa da Gattopardo che però il passato, la famiglia, la tradizione, il grande padre Silvio, li usa per andare avanti, non per ripiegare sulla contemplazione, cribbio se è stato un bell'esordio quello di Angelino Alfano, anche perché nel frattempo il capo dei congiurati, Scajola, taceva, segno di accordi condotti sapientemente, nello stile mai abbastanza rimpianto della Prima Repubblica. No che non è stata solo una sceneggiata, non c'era un puparo che tra marionette festanti ha scelto il suo pupo, ovvero Angelino Alfano. Lo scrive una che non ha gradito molte cose dell'assemblea di venerdì all'auditorium della Conciliazione di Roma, dalla Minetti all'acclamazione, alla battuta infelice del Cav «e questo sarebbe il partito diviso che gli avversari raccontano», ché l'unanimismo, caro Cavaliere, non è mai stato una virtù necessaria. Lo scrive una che avrebbe preferito non i rituali  del tempo che fu e che non torna, ma una convention seria, e subito primarie. Che sono uno strumento formidabile, ebbene sì. Pure, ci sono elementi positivi insperati nell'incontro, e stanno quasi tutti nel discorso imprevisto e non formale di Alfano, non ho informazioni certe ma sono convinta che non ci si aspettasse quei toni e quelle affermazioni, tantomeno la reazione della platea, ma anche in alcune frasi di quello di Silvio Berlusconi, che indicano con chiarezza sia che c'è un progetto per la riconquista del centro elettorale, sia che il Pdl è ancora nelle sue mani ma che ha abbandonato l'atteggiamento distruttivo del “dopo di me il diluvio”, e che utilizzerà un metodo un po' più rigoroso nel giudicare meriti e demeriti dei suoi eletti e dirigenti. Pure, c'è nella risposta stizzita e rancida dell'opposizione che nessuno governa e dei suoi giornali - la citazione del puparo è da «Repubblica», Curzio Maltese, il genere di giornalista risentito sociale che purtroppo impazza trasversalmente - c'è in quella risposta una sottovalutazione delle novità e nel contempo una mancanza di fair play da veri antitaliani, da autentici antidemocratici, che da un lato spaventa, per le sorti del Paese, dall'altra rassicura sulla possibilità di costoro di vincere mai delle elezioni politiche, e l'unico che lo lascia intendere è paradossalmente ma sempre meno casualmente Antonio Di Pietro. Pure, dal metodo Alfano avrebbe qualcosa da imparare il partito che è stato davvero mazzolato nelle ultime consultazioni elettorali e referendarie, ovvero la Lega, che ha scelto di rinchiudere un leader stagionato e provato in un cerchio magico di badanti, ma il suo Alfano ce lo ha, e lo dovrebbe utilizzare alla grande, si chiama Roberto Maroni.  Certo è che il Pdl da venerdì è un po' più un partito, e ne sentiva evidentemente una grande voglia.  Nel discorso di Alfano c'erano alcune key words, parole chiave della retorica, che hanno suscitato entusiasmo: merito e talento, partito aperto ma con regole, garantismo ma non impunità, valorizzazione dei giovani non per coptazione ma per qualità, sanzioni per i disobbedienti sparsi in giro per il Paese, e qui è partita un'ovazione. Sono le parole storiche del movimento dal quale tutto era partito nel 1994 ma la loro forza era andata perduta  e adesso risuonano come un nuovo manifesto di intenti. Nel discorso c'erano alcune frasi chiare a chi nel partito preparasse disinvoltamente nuove guerre secondo la vecchia abitudine del movimento geniale ma confuso che era partito sul predellino di San Babila, trascinando Alleanza nazionale. «Lei ha sempre detto che questo è un partito fatto di monarchia e anarchia. Ora però lei si è annoiato di fare il monarca ma gli altri non si sono annoiati di fare gli anarchici», «Da oggi la logica del 70 a 30 finisce in soffitta, oggi siamo 100 per cento Pdl», «Vinca chi ha i voti e non chi ha i soldi», e la più nota  e superficialmente irrisa sul «partito degli onesti», enfatizzata dalla frase riservata a Berlusconi: «Lei è un perseguitato, ma ho l'onestà di dire che non tutti lo sono». Il discorso, il piglio, il tono, hanno di certo sconfitto la caricatura già in uso secondo la quale sarebbe stato scelto il pupo dal puparo, ovvero un segretario privo di qualunque autonomia, in balia dei capi fazione. A scrivere e forse pensare queste cose sono gli stessi che si sono convinti della disgregazione naturale  e obbligata del berlusconismo, sbagliando. Dalla sua Alfano ha il potere che invece  Berlusconi gli ha conferito veramente, compiendo un primo passo indietro, certo dovrà dimostrarsi capace di essere il leader della transizione e oltre. Dalla sua Alfano, piaccia o no, ha la società italiana e la prevalenza dell'area moderata che da democristiano nato e cresciuto, e in Sicilia, conosce come pochi. Erano democristiani ma anche socialdemocratici, da diciassette anni guardano a Berlusconi, e prima di dare quel mondo per esploso ce ne vuole. La cornice obbligata del Partito Popolare Europeo aiuta a dialogare con i pezzi dispersi, soprattutto con l'Udc di Casini, perché non è detto che di Fini resti qualcosa con cui dover avere a che fare. Interessa a tutti, non solo al Pdl, ma il futuro de Pdl è anche certamente legato alla capacità di chiudere gli accordi e sanare la diaspora. I laici, i liberali liberisti che furono così fondamentali nella costituzione corsara di Forza Italia? Inutile negare che per loro il ruolo nel partito è marginale, ma non lo ha scoperto Angelino Alfano, è storia vecchia, e forse è storia d'Italia. di Maria Giovanna Maglie

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