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Michael Jackson, nel suo corpo un dispositivo antidroga

Sotto la pelle di Jacko trovato un marchingegno per combattere la sua tossicodipendenza. Mossa della famiglia per incassare 30 miliardi

Giulio Bucchi
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di Gianluca Veneziani Il re del pop forse era anche il re dell'oppio. Esattamente dieci anni Michael Jackson si sarebbe fatto impiantare un piccolo congegno, in grado di bloccare il piacere prodotto dagli oppiacei, al fine di combattere la propria tossicodipendenza. È quanto emerge dalle carte portate in tribunale da uno degli ex dottori di Jacko, David Fournier, in occasione del processo intentato dalla madre del cantante all'Aeg, società organizzatrice dell'ultimo concerto della popstar. Stando ai documenti, l'impianto avrebbe agito sul cervello di Jackson, iniettando dosi di Narcan, farmaco a base di Naxolone, capace di inibire i recettori del piacere e quindi di ridurre la dipendenza da eroina, morfina e altre sostanze stupefacenti. Una sorta di antidoto interno contro la droga.  A quattro anni dalla sua morte, non è la prima volta che il nome di Jackson viene associato a scandali legati alla droga. In un dossier shock del 2011 era emerso che nella sua biancheria intima, al momento del decesso, erano state trovate tracce di cocaina. La notizia era servita all'ex medico del cantante, Conrad Murray, accusato di omicidio colposo, per sostenere che Jackson aveva una certa familiarità con l'uso delle droghe e quindi si era procurato la morte da solo, e non – come voleva l'accusa – in seguito alle prescrizioni mediche esagerate da parte dello stesso dottore.  La scoperta di questo apparecchio, invece, servirebbe stavolta alla madre del cantante per argomentare la sua tesi contro l'agenzia promoter di musica. Il ricorso al Naxolone da parte di Jackson dimostrerebbe infatti che il cantante, prima della morte, non era affatto in condizioni psico-fisiche ottimali, come invece sosteneva l'Aeg, pur sapendo che la popstar non stava affatto bene. L'impianto che servì al cantante a disintossicarsi potrebbe dunque servire ora a sua mamma Katherine per ottenere un risarcimento di 40 miliardi di dollari, pari a 30 miliardi di euro. Al di là dell'aspetto giudiziario, questa vicenda getta nuovi squarci inquietanti sulla figura di Jackson, già accusato di pedofilia e a lungo nell'occhio del ciclone mediatico per la sua presunta vitiligine, che gli avrebbe causato uno sbiancamento della pelle. L'eccessiva magrezza, la sorprendente bianchezza di un uomo nato nero, la mutazione dei connotati sempre più efebici e plastici, nonché l'insofferenza alla luce solare avevano trasformato negli ultimi anni il cantante in un'espressione della patologia del successo, anziché in un modello positivo dello star system. Un'involuzione che gli era stata addebitata anche da molti fan nonché da tanti colleghi di colore, che lo avevano accusato di essere un afro-americano rinnegato. La chiusura, su decisione giudiziaria, di Neverland, l'isola che non c'è da 1400 ettari che il cantante si era fatto costruire come dimora privata, aveva completato il quadro, dimostrando che il cantante era tutt'altro che «invincible», come recitava il titolo di un suo album famoso. A quattro anni dalla morte però, mentre il mito cresce e aumenta anche il numero degli scandali veri e presunti (e si alimenta frattanto la leggenda che Jackson non sia davvero morto), forse non sarebbe male che questo eroe troppo debole venga lasciato in pace, e non sconti da morto gli errori che pure deve aver commesso in vita. Ma è forse la sorte di tutti i giganti, della musica e non solo, restare vivi soprattutto dopo che ci hanno lasciato. Tanto sappiamo che Jackson  già si libra tra gli immortali, insegnando loro il «Moondance». Per immaginarsi com'è stare lassù, nella vera isola che non c'è, forse non basterebbero neppure dosi massicce di oppio.

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