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Coronavirus, Marco Liorni: "Così l'Europa non ha senso. Dopo la pandemia, temo l'impatto psicologico"

Francesca D'Angelo
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«Come si fa, adesso, a parlare d' altro?». Marco Liorni ha ragione: non si può. Il Coronavirus è il grande tema che sta fagocitando tutto e tutti, stravolgendo i palinsesti e la fisionomia di molti talk. Ma non l' anima. Il programma del sabato pomeriggio di Rai Uno Italia sì nasce infatti per raccontare il popolo italiano e, paradossalmente, il modo con cui si sta affrontando l' epidemia è una delle più potenti espressioni di cosa voglia dire essere italiani.


C' è un racconto che vada oltre l' elenco di morti, contagiati e guariti?
«Per fortuna sì: raccontare l' epidemia vuol dire anche raccontare gli italiani. È il momento di capire chi siamo. In fondo è nelle situazioni difficili che emerge, nel bene e nel male, di quale pasta siamo fatti».


In molti assicurano che ne usciremo fuori migliori.
«Non so se sarà così automatico. Penso, semmai, che dovremmo mettere fin da ora sul tavolo i buoni propositi, le nostre preoccupazioni, le riflessioni maturate finora. Lavorarci su già adesso, anche perché quello che è davvero a rischio è il nostro benessere mentale».

In che senso?

«All' inizio, quando è esplosa l' epidemia, siamo usciti sui balconi per abbracciarci virtualmente e sentirci comunità. Adesso però arrivano i problemi economici, le solitudini, i problemi psicologici: a Italia sì ne stiamo parlando molto perché in questa guerra non bisogna solo sopravvivere fisicamente ma mantenere anche un equilibrio mentale».


Una volta finita l' epidemia usciremo tutti dalle case per andare in analisi?

«Può essere (ride, ndr). Sicuramente cambieranno le nostre priorità. Se c' è un aspetto positivo è che molti giovani, le cui giornate ruotavano attorno al cellulare, si stanno stufando della virtualità. Per esempio mio figlio mi ha detto di voler aiutare la Croce rossa italiana perché ha bisogno di "fare qualcosa di vero"».

Raccontare in tv la pandemia non è una sfida semplice. Teme di più l' allarmismo o la retorica?
«Ormai sono suonati tutti gli allarmi possibili e immaginabili. Quanto alla retorica, un po' fa bene in questi frangenti».

Da Muccino a Salvatores, in molti stanno lavorando a film e serie tv sull' Italia nell' era della pandemia. Come spiega questa corsa al racconto tanto più che, a emergenza finita, non è detto che avremo tutta questa voglia di rivivere la pandemia su grande schermo?
«Mi sono posto la sua stessa domanda. Probabilmente risponde al desiderio di capire chi siamo. Ora non riusciamo a dare una lettura degli eventi, perché ne siamo immersi fino al collo. Un film o una serie tv permette invece di dare una chiave di lettura ex post, anche perché l' arte spesso trova delle "tracce" invisibili ai più».

La benedizione Urbi et orbi del Papa è stata una grande pagina di storia. Lei cosa ci ha letto?
«Mi ha commosso. È stata un evento molto evocativo, anche solo dal punto di vista estetico: il Papa ha affrontato da solo il vuoto assordante di quella piazza, caricando su di sé le solitudini di ciascuno».

È importante che le chiese restino aperte?
«Sì. Ognuno può pregare nel proprio intimo ma, talvolta, la solitudine può diventare disperazione. In questi casi è importante avere un luogo dove cercare ristoro: magari poi non ci si va, ma sapere che esiste fa la differenza».

Come valuta la Ue?
«La sua riottosità a darci credito è palese. Abbiamo bisogno che nella Ue ci siano persone che vedano al di là dei conti riscoprendo il cuore, ossia lo spirito dei padri fondatori. È da lì che bisogna ripartire. Altrimenti l' Ue non ha senso».

 

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