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Addio a Zafòn, il bestsellerista fantastico mai amato dall'intellighenzia

 Carlos Ruiz Zafòn

Scrittore, pubblicitario, cinematografaro , il suo capolavoro fu L'ombra del vento

Francesco Specchia
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Cada libro, cada tomo que ves, tiene alma. El alma de quien lo escribió, y el alma de quienes lo leyeron y vivieron y soñaron con él”, ogni libro, ogni tomo che vedi, possiede un’anima. L’anima di chi l'ha scritto e l’anima di chi l'ha letto, vissuto e sognato. Gli epitaffi hanno sempre un valore retroattivo.

E l’epitaffio che è apparso sul profilo Twitter ufficiale di Carlos Ruiz Zafòn per annunciarne la morte - a 55 anni per la solita terribile malattia- non è altro che la sintesi del soffio romanzesco che è stata la vita dello scrittore di Barcellona. Zafon, per molti, era considerato il Cervantes del XXI secolo. Era l’autore che più di tutti aveva saputo intrecciare poesia, sentimenti e narrativa gotica; ma pure ritmi del cuore e indagini sincopate in quello che J.L. Borges (il suo vero padre putativo, a mio parere, nonostante lo stile antitetico) chiamava il “sottogenere misterico dei libri sui libri”. Probabilmente la definizione di Cervantes moderno è un tantino esagerata. Sull’eredità del padre del Don Chisciotte, molto avrebbero a che dire suoi colleghi come Mariano José de Larra, Benito Pérez Galdós, Manuel Vázquez Montalbán e perfino Arturo Peréz Reverte che nel Club Dumas anticipò, peraltro, le caligini del racconto ambientato nei territori delle biblioteche magiche e dei libri perduti. Ma -tanto per rimanere nel confronto- se Peréz-Reverte può vantare ad uso delle masse una vita da ex inviato di guerra, anchorman tv, frequentatore delle trincee di tutte le letterature, Zafòn, al contrario, ha sempre preferito che sulla propria vita prevalesse quella dei suoi personaggi. Quando scrisse L’ombra del vento, nel 2001, Barcellona, la cui essenza gotica ricominciò ad intrecciarsi coi colori e le inquietudini delle architetture di Gaudì, tornò ad essere il cuore dell’editoria spagnola. Non fu un successo annunciato, L’ombra del vento. Fu il passaparola dei lettori che spinse il libro sulla hit delle vendite dopo un anno di galleggiamento sugli scaffali. La trama elaborata da Zafòn era avviluppante. Utilizzando l’espediente narrativo del libro ritrovato, lo scrittore era riuscito a shakerare fantasy, realismo ed elementi gialli. Il ragazzo protagonista è Daniel, figlio di un librario specializzato in edizioni antiche e per collezionisti, che vive nella Barcellona del 1945 straziata dalla guerra civile, dal franchismo e dalla povertà. Dalla sua bottega il padre lo spinge verso la scoperta del Cimitero dei Libri Dimenticati, il luogo in cui sono conservati centinaia di volumi destinati all’oblio. Il volume che, tra tutti, Daniel sceglierà, L’ombra del vento del misterioso scrittore Julián Carax (e qui io richiamo agli scritti e scrittori inesistenti di Borges è fortissimo) lo accompagnerà fino all’età adulta, in una giostra di scoperte e pericoli. Quando il romanzo arrivò in Italia per Mondadori era stato anticipato dalla fama di primo best seller spagnolo della sua generazione per successo mondiale, insieme alla Cattedrale del mare di Ildefonso Falcones. In vent’anni ha venduto oltre 15 milioni di copie nel mondo, oltre 1 milione soltanto in Italia, ed ha avuto un centinaio di edizioni estere. Da lì è nata una quadrilogia intitolata Il Cimitero dei libri dimenticati appunto, che dopo L'ombra del vento è proseguita con Il gioco dell’angelo (2008), Il prigioniero del cielo (2012), concludendosi con Il labirinto degli spiriti (2016), tutti editi da Mondadori. Se si conosce la genesi del capolavoro, della vita privata di Zafòn, uomo colto e negli ultimi anni assai vicino all’estetica del dandy – occhiali da design, abiti casual firmati, pizzo con richiami ancestrali alla cavalleria catalana- si sa, in verità assai poco. Fondamentalmente, che aveva esordito nel ‘93 nella narrativa per ragazzi pubblicando col Principe della nebbia, cui erano seguiti Il palazzo della mezzanotte e Le luci di settembre; che ha aveva fatto le scuole dai gesuiti prima di diventare direttore creativo di un’importante agenzia pubblicitaria spagnola; che era stato sposato e poi divorziato, ma del nome né del volto della moglie non s’è mai avuta traccia. E che, dopo l’enorme successo editoriale, Zafòn si era lasciato attrarre, come molti suoi colleghi, dalle sirene di Hollywood, affittando per sei mesi all’anno una villa a Malibu.

Zafòn è sempre stato restio alla figura dello scrittore superstar, le sue apparizioni pubbliche sono sempre state rare (in Italia ricordo, mi pare, quella a Pordenonelegge). E, per quanto riguarda le interviste di un certo peso se ne ricorda, sempre quella a El Pàis del 2008. Laddove in 10 righe tracciò il suo percorso professionale: “Ho iniziato come una copy e sono finito come direttore creativo. Molti scrittori, come Don Delillo, hanno lavorato nella pubblicità, tocca la letteratura. Impari a vedere la lingua, le parole come immagini. È lo stesso per i romanzieri che sono stati giornalisti. Michael Connelly era un cronista prima di diventare scrittore di gialli, e senza quella formazione la sua letteratura sarebbe stata molto diversa, senza dubbio. Ma ciò che influisce sul mio lavoro e non si dice mai è il mio interesse per il cinema”. E, in effetti immergersi nelle sue pagine evoca un’esperienza cinematografica. I suoi fantasmi -a dispetto dei suoi detrattori, appartenenti sempre alla stessa intellighenzia- continueranno ad ossessionarci per generazioni. Per fortuna…

 

 

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