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Edoardo Nesi: "L'economia è la nostra vita, anche il mutuo è un atto di fede"

Edoardo Nesi

Lo scrittore Premio Strega nel libro Economia sentimentale a ruota libera sul salvataggio della piccola impresa, il Recovery Plan, i figli, l'ecologia che non è solo appannaggio della sinistra, anzira ma

Francesco Specchia
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Se il denaro scorre veloce, tutte le porte si aprono, scriveva Shakespeare che evidentemente conosceva le basi dell’economia animista di Edoardo Nesi nell’Italia della pandemia.

Nesi, classe 64, premio Strega ed ex imprenditore del tessile pratese è uno scrittore industrialista col raro dono della visione. Nel suo ultimo pamphlet Economia sentimentale (La Nave di Teseo, pp 162, euro 17) rivela che le scelte economiche sono un atto di fede, e la manifattura l’ultima speranza dell’umanità.

Caro Nesi lei spiega lo smarrimento col debito pubblico, la felicità con la crescita del Pil e i saldi dei mutui come fotografie delle nostre vite. Che significa?

“Che, in fondo, quando accendi un mutuo fai la scelta di passare il resto della tua vita a impegnarti nel pagare un debito; il che vuol dire, se ci pensi, sperare nel futuro. Nei rapporti economici io vedo sempre il sentimento. C’è qualcosa di poetico ogni volta che metti dei soldi per determinare la tua vita. L’economia è tutt’altro che fredda”

Nel libro lei si sconvolge all’annuncio dell’ex premier Conte di mettere in lockdown le attività produttive. Oggi, commercianti, esercenti e partite Iva scendono in campo e Draghi prova a riaprire. Una scommessa doppia sulla responsabilità degli italiani nel rispettare le regole, e sulla crescita del Pil…  

“Quella scena del lockdown fu dettata da due dati di fatto: oddio, eravamo nelle mani di gente che non sapeva le cose (ma Draghi mi pare

conosca il ciclo economico); ed era necessario che qualcuno, con la paranoia tipica dello scrittore, lo denunciasse. C’era una serrata tremenda in atto. E io, che da sempre ho a cuore le sorti della piccola impresa, dovevo solo sfogarmi. Le chiusure e le proteste oggi sono nulla rispetto al primo lockdown. A Prato l’intera industria del tessile s’è fermata, perfino i cinesi”

Lei cita il Conte Mascetti, Bob Dylan e i fatturati del “Mage”, un collega imprenditore nei guai perché i ristori dello Stato non arrivavano. Perché tratta la nostra manifattura come un paradiso perduto e mette al centro del suo racconto le piccole e medie imprese?
“Perché sono il nostro midollo, e le stiamo perdendo. In Italia, specie da sinistra, si è pensato che la crescita economica fosse acquisita come un qualcosa di “dato”. Con un luogo comune si diceva: gli industriali fanno il nero, ci guadagnano, è un dovere morale colpirli. Ora invece c’è un cambio di paradigma: l’industria va sostenuta, “crescita” diventa parola sacra, come lo era stato per molti, “decrescita felice” che in realtà era una gran cazzata. E il Mage è messo ancora malissimo: nell’online l’abbigliamento funziona poco perché c’è una grandissima percentuale dei resi. Ma quando la pandemia finirà ripartirà tutto, io credo in un grande rimbalzo. Mi tornerà la voglia di comprare un capo d’abbigliamento, una nuova automobile. Ma serve qualcos’altro”

E cosa? Un Recovery Plan ben scritto? Meno burocrazia? Riforme?

“Anche. Ma lo dice lo stesso ministro Giovannini: la propensione ad acquistare deve essere accompagnata da una certa serenità, e se apri poi devi tenere aperto. L’idea della normalità”

Giovannini, che lei cita spesso, oggi è ministro alle Infrastrutture e alla Mobilità Sostenibile: lavora da anni sulle visioni del welfare a lungo termine, ispirate da una politica che pensi al futuro delle nuove generazioni. Anche perché oggi è un disastro. Lei è tra quelli che crede nella “grande opportunità” che può nascere dalla crisi?

“Giovannini ha un dicastero che non doveva neanche esserci ma che ora è uno dei perni della rinascita con quelli di Colao e Cingolani. Certo che credo nel cambio di passo. Oggi si parla solo di green, di sostenibilità. Questi temi non sono più battaglie dei Verdi, ma diventano trasversali, una necessità commerciale assoluta ed inevitabile per tutti. Le grandi idee si affermano quando il mercato le richiede”

Cioè, intende che ci riconvertiremo tutti all’ecologia spinta? Anche la vecchia industria da cui lei proviene?

“Sì. C’è una sensibilità mondiale che non nasce, parliamoci chiaro, da istanze nobili. Le grandi idee si affermano quando il mercato le richiede. La lana riciclata ormai è come entrata nel paniere, e non conta più l’ideologia di destra o di sinistra; e la convinzione liberista per cui all’industria si dà più libertà nel trattamento dell’ambiente, viene smentita dagli atteggiamenti dei consumatori che vogliono il tessuto non riciclato e se non ce l’hai vanno altrove”.

La pandemia ha avuto un effetto ulteriormente distorsivo sull’ascensore sociale. Lei è ancora convinto che in futuro i figli guadagneranno meno dei padri?

“L’ascensore sociale se c’è, scende verso il basso. Sono stufo di raccontare nei libri la storia oramai fantascientifica dell’operaio bravo che si fa fare il prestito in banca e apre un’azienda tutta sua, nel riscatto sociale. Non funziona più così. Dovremmo fare qualcosa per assumere più giovani possibili. I miei figli, per dire, ora fanno il necessario master all’estero, il problema non è la fuga, è il ritorno”

I nostri figli danno la colpa di tutto questo alla nostra generazione…

“Ecco, trovo abbastanza crudele che la mia generazione tra i 50 e i 60 anni ora si becca la colpa, pur non avendo mai avuto la possibilità di governare. Abbiamo preso solo lo strascico dell’età dell’oro; è come quando passi la vita ad aspettare di governare l’azienda per onorare il lavoro di tuo padre e all’improvviso tutto quello che tuo padre ha costruito scompare. Terribile…”

A proposito di suo padre imprenditore a Prato. Lei racconta di uno screzio avuto con lui perché non voleva aumentare lo stipendio ai suoi artigiani. E lui le mostrò che non sempre la classe operaia ha ragione…

“Fu una lezione. Non sono mai stato comunista, ma certo rientravo in azienda, dalla scuola, dall’ambiente, imbevuto da principi di giustizia sociale in cui fioccavano gli stereotipi: noi eravamo i padroni ricchi e loro il proletariato da sfruttare. Sollevai una questione etica e dissi che dovevamo acconsentire a tutte le richieste degli artigiani. Mio padre mi fece notare che gli artigiani avevano parcheggiato le Mercedes dietro l’angolo; e che quella, era in realtà una trattativa. E dal loro punto di vista avevano anche il coltello dalla parte del manico, con macchinari e telai migliori di quelli delle aziende”

Perché siamo così industrialmente in sofferenza, nonostante il virus abbia livellato tutte le condizioni di tutti i paesi?

“Perché in questi anni abbiamo perso la nostra manifattura bassa, il tessile, i mobili, le scarpe che sono andate in Cina (mai fidato dei cinesi, non ci voleva un genio per capirlo) per diventare manifattura altissima e dare un valore aggiunto al loro mercato. Sono contrario alla delocalizzazione. E sono per il recupero della filiera. Facciamo fare le riconversioni alle aziende italiane”

Però, scusi, lei mi parla di abisso profondissimo ma, nonostante tutto, l’Italia rimane il secondo paese manufatturiero d’Europa…

“So bene che le grandi aziende tecnologiche, meccaniche, piene di ingegneri meccanici e di componentistica, specie nel nord- nord est, tengono ancora su il settore. C’è il distretto degli occhiali, quello dei freni. Non intendo dire che è sparita la manifattura, ma solo quella in cui lavoravo io, porca maremma”

E, ora che succederà?

“C’è un Recovery Plan da scrivere e da consegnare alla Ue. Avremo l’occasione di cambiare l’ottica e far ripartire il Paese, di mettere mano alle grandi opere. E sono contento che ci sia Draghi a Palazzo Chigi. Abbiamo voluto metterci lì i ‘migliori’? Allora proviamoci. Il Paese ripartirà all’improvviso, velocissimo, ma tenendo conto delle svolte che ci ha portato il Covid e da cui non torneremo indietro. Poche saranno le aziende che terranno uffici enormi in centro quando ti cambia il concetto stesso di forza-lavoro; e tu puoi sfruttare al massimo i lavoratori in smart working. E’ cambiato tutto. A Prato non c’erano lotte sindacali, gli operai stessi non scioperavano sennò si bloccava la produzione, i contratti non erano scritti e certe volte per definirli era superflua anche la stretta di mano…”

 

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