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Milano, il colonnello Paternò: "Il trans? Perché le vittime sono gli agenti"

Pietro Senaldi
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«In verità finora l’unico che l’ha fatta franca è il trans. Malgrado l’accusa di violenza e resistenza a pubblico ufficiale, reato che prevede l’arresto in flagranza, è a piede libero e rilascia interviste come una star, nonostante la sua oggettiva pericolosità sociale desumibile dai numerosi precedenti penali».

Però c’è un video che riprende i vigili mentre manganellano la persona fermata...
«Per chi lo vede con sano preconcetto e cieco pregiudizio contano solo quei pochi secondi. Nulla di quanto accaduto prima rileva. Non che il trans era fuggito, aveva sputato agli agenti dichiarando di avere l’Aids, aveva preso a calci un vigile, che ha una prognosi di quindici giorni. Bisogna confrontare il danno minacciato con quello arrecato. Se la minaccia è un’infezione potenzialmente mortale, la difesa con qualche blanda manganellata mi appare proporzionata».

Blanda manganellata?
«Le assicuro che una vera manganellata sulla testa non ti permette di stare in piedi e rilasciare interviste il giorno dopo. Ma poi, chi vuole vedere veri calci in faccia e vere bastonate, anziché il video realizzato dai prodi studenti bocconiani dovrebbe visionare quelli delle sanguinose risse tra clandestini nelle nostre periferie o davanti alle stazioni».

Quindi difende i vigili manganellatori?
«La guerra contro l’attuale criminalità urbana è una guerra che nessuno vuol vedere né dichiarare, perché altrimenti andrebbe addebitata alle scellerate politiche sull’immigrazione dei governi passati, e a mio avviso anche di certa politica attuale. So solo che, a combatterla, sono rimaste, loro malgrado, unicamente le forze dell’ordine, in totale solitudine».

Abbandonate anche dai loro vertici, che a ogni episodio fanno a gara per accusare i sottoposti e dissociarsi?
«Altrimenti non si fa carriera. I capi scaricano sulla truppa, è la regola. E gli agenti, abbandonati, si sentono sempre meno sicuri, e quindi garantiscono meno sicurezza».

Però ogni tanto si esagera...
«Sicuramente c’è un problema di addestramento a monte, ma nelle prese di posizione dei comandi generali non c’è mai mezza parola sullo stato di tensione ed esasperazione nel quale gli uomini sono costretti a operare ogni giorno in metropoli sempre più impazzite».

Il governo dice che i crimini sono diminuiti, è solo aumentata la percezione di essi...
«Ah sì certo, si vede allora che la cocaina è diventata legale, se aumenta il suo consumo ma diminuiscono i reati. Cosa significa percezione, che il trans sputazzatore denunciato dai cittadini ai vigili era un ologramma?».

 

 

Il colonnello Salvino (non per caso) Paternò non ha peli sulla lingua, che è ormai l’unica arma che le nostre forze dell’ordine possono usare per difendersi, ma solo dopo aver cessato il servizio. E infatti il colonnello, protagonista della lotta alla criminalità organizzata negli anni Ottanta e Novanta, «quando la mafia e la camorra c’erano davvero, non come oggi che le strade sono in mano alle baby gang, il che dimostra che Cosa Nostra è stata sconfitta», ha lasciato i carabinieri da anni e si gode la sua pensione facendo l’agricoltore nei campi della Ciociaria. «Scrivo quel che penso su Facebook e mi sono guadagnato una certa fama», spiega Paternò, «ma tutto quello che dico e faccio è da privato cittadino sia chiaro. Nei secoli fedele, però l’Arma è rimasta solo nel mio cuore».

Questa premessa non impedisce tuttavia che il colonnello sia un mito per i suoi colleghi, che lo considerano una specie di vendicatore morale della categoria.
«La politica, e i vertici delle forze dell’ordine che le sono sottomessi, forse pensano che la sicurezza si mantenga regalando margherite ai criminali. Per non finire nel tritacarne giudiziario i nostri agenti devono usare tecniche d’intervento non fisiche bensì metafisiche, quasi trascendentali. Il crimine va contrastato filosofeggiando, ammaliando i delinquenti. Altro che teaser e spray al peperoncino, dobbiamo ricorrere all’ipnosi. Gli agenti ormai lo sanno e temono più le conseguenze penali e le gogne mediatiche delle coltellate o delle pallottole, perché almeno quelle non fanno soffrire anche le loro famiglie».

Colonnello, lo ammetta, talvolta le forze dell’ordine esagerano...
«Ah sì, l’abuso di potere è sempre dietro l’angolo, il reato di tortura bussa alle spalle, il magistrato è sul piede di guerra, il superiore è pronto alla fuga, il cittadino ha il cellulare spianato e il giornalista sorvola l’area come un avvoltoio. E se esplodi un colpo di pistola, puoi star certo che in tv spunteranno come funghi esperti di balistica e maestri di tiro ad accusarti di eccesso di legittima difesa. Starà poi al magistrato dalla sua scrivania, tra il pranzo e la cena, soppesare se, in una situazione convulsa, con l’adrenalina in vena, ricorrevano le condizioni di proporzionalità tra offesa ricevuta e portata. Che poi la cosa incredibile è che il poliziotto viene dileggiato sia che reagisca, sia che non lo faccia, come quel poveretto che si è fatto sfilare la pistola da un extracomunitario a Vicenza...».

Quella è stata una figuraccia...
«Se intervieni con decisione sbagli, se non lo fai sbagli. Abbiamo regole d’ingaggio schizofreniche che annichiliscono la polizia».

 



 

È per questo che anche i criminali semplici sono sempre più aggressivi?
«Certo, e la cartina di tornasole è la vicenda delle borseggiatrici filmate nella metropolitana di Milano. Il Comune si è schierato con loro in difesa della privacy. Se guardi tutti negli occhi, leggerai nei criminali la spavalderia dell’impunità, nei cittadini la rabbia della rassegnazione e negli agenti la consapevolezza dell’impotenza».

Non è sempre stato così...
«Tutto è precipitato nell’ultimo decennio ma non saprei identificare il momento in cui abbiamo perso la guerra contro questa criminalità, dopo aver vinto senza mezzi, senza tecnologia e senza neppure una grande cultura, quella contro la mafia».

Come vi riusciste?
«Avevamo la fortuna di poter utilizzare metodi operativi che attualmente sarebbero definiti criminali. Ha presente parole tipo “rastrellamento, retata, cinturazione d’area urbana?”. Vocaboli che oggi sarebbero ritenuti incitamenti all’odio o istigazione a delinquere. E poi c’è anche da dire che allora i vertici della forze dell’ordine volevano sconfiggere mafia e camorra. Oggi non si combatte la criminalità urbana perché farlo non porta medaglie, promozioni né prime pagine sui giornali».

A lei la do la prima pagina...
«E ne approfitto per chiedere alla politica di intervenire sul campo giuridico con adeguate norme repressive e preventive che permettano alla polizia di operare in maniera risolutiva. Vuole sapere l’altra ragione per la quale abbiamo sconfitto la mafia?».

Secondo lei?
«Perché dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio crollò il sistema di connivenze. L’Italia migliore ebbe un moto di ribellione al quale neppure la politica più collusa poteva resistere. Chissà se questa Italia sarebbe capace di una risposta altrettanto forte. Mi permetta di dubitare».

Oggi c’è ancora chi lancia accuse contro Berlusconi?
«Fantasie. La mafia la sconfiggemmo con la Prima Repubblica, i governi Craxi, Amato... Berlusconi non c’entra nulla e la strage di via dei Georgofili fu solo un colpo di coda di una mafia morente».

La politica però abbandonò Falcone e Borsellino...
«Da quel che ricordo penso che furono abbandonati soprattutto dai loro colleghi. Quelli che poi hanno avuto una seconda vita da professionisti dell’Antimafia».

La scorsa settimana c’è stato uno scontro politico e mediatico sulla nomina dell’onorevole Colosimo, di Fdi, a presidente della Commissione Antimafia...
«Che vuole che le dica. Sono organismi inutili, come inutili sono le polemiche. E poi la Colosimo non è nata nel 1986? La mafia oggi non c’è più, è stata sconfitta negli anni Novanta dopo una sanguinosa lotta durata un ventennio, pertanto le Commissioni Antimafia non servono. È tempo di smettere di alimentare il mito dell’Antimafia, che è legalità da salotto con la quale ci si riempie la bocca per costruire carriere politiche. Io la mafia l’ho combattuta in strada, respirando la fitta aria d’omertà e indifferenza di chi si muove in terra nemica. La nostra caserma dei carabinieri a Torre Annunziata era stata ribattezzata “Fort Apache” dal suo collega Giancarlo Siani, trucidato dalla camorra. Eravamo la sola roccaforte di legalità in una terra criminale».

Matteo Messina Denaro però l’hanno preso solo a gennaio dopo trent’anni di latitanza...
«Se anziché allestire per anni fantasmagorici teoremi processuali con tanto di voli pindarici su visionarie e contorte trattative ci si fosse concentrati sulla latitanza, non sarebbe passato tanto tempo».

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