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Maurizio Molinari, quando confessava l'odio della sinistra per gli ebrei

Andrea Valle
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Fa sorridere (e riflettere) il cortocircuito progressista su temi come l’antisemitismo, soprattutto se scoppia in “casa” dei benpensanti, quella Repubblica dove la fronda dei giornalisti anti-Israele si scontra nientemeno che contro il vissuto e l’operato del direttore, Maurizio Molinari. Il quale, ne La sinistra e gli ebrei in Italia (1967-1993), edito da Corbaccio nel 1995, inquadrava l’antisemitismo nella storia d’Italia: fotografia del passato che riflette ciò che oggi sta avvenendo nella sua redazione.

NAZISTI=CIA=EBREI
Scriveva Molinari (pp. 42-43): «Subito dopo la fine della guerra dei Sei Giorni le posizioni della sinistra che non seguiva il Pci sulla via di Mosca trovarono eco nella stampa italiana con gli appelli “per la sopravvivenza di Israele ” (firmati anche da Italo Calvino, Alberto Lattuada, Federico Fellini, Alessandro Galante Garrone, Nicola Adelfi, Alberto Ronchey, Noberto Bobbio, Elena Croce) e con numerosi interventi scritti, da Giovanni Spadolini, a Ferruccio Parri a Altiero Spinelli, a Carlo Casalegno fino a Pier Paolo Pasolini che prese posizione su Nuovi Argomenti con toni fortemente polemici nei confronti della scelta di campo de L’Unità. “In questi giorni leggendo l’Unità ho provato lo stesso dolore che si prova leggendo il più bugiardo giornale borghese”, scriveva Pasolini chiedendosi “perché” il Pci aveva condotto una vera e propria battaglia “per creare” un’opinione di massa antisraeliana, mentre invece “l’unico modo per essere veramente amici dei popoli arabi” era “aiutarli a capire la follia politica di Nasser”.

«Diverso fu invece l’atteggiamento di Eugenio Scalfari, allora direttore de L’Espresso che, attestandosi su posizioni filoarabe, diede vita ad un duro scontro con Arrigo Benedetti, editorialista e fondatore della rivista, che portò alle clamorose dimissioni di quest’ultimo. Ingiustamente accusato di “razzismo antiarabo” solo per aver osato criticare la dittatura di Nasser, Arrigo Benedetti si venne così a trovare al fianco di Pier Paolo Pasolini. Fu Mario Pannunzio a commentare lucidamente il “caso Benedetti”: “L’Espresso risente di uno schieramento non ancora ben delineato a cui partecipano, con fatale ambiguità, i comunisti, gli aderenti al Psiup ed una frangia cattolica”. Era la prima fotografia politica del nascente schieramento cattocomunista che cementava la sua unità nel segno dell’antisionismo.

 

 

BUTTIAMOLI A MARE
Il clima di quei momenti era bollente. Riporta Molinari (pp. 70-71) che «fra il 1972 e il 1973 si erano moltiplicati i casi di aggressione contro studenti ebrei nei licei e nelle Università da parte di gruppi di sinistra al grido di “morte al nazista sionista”: dal caso del liceo Parini di Roma, dove il giovane Carlo Momigliano era stato picchiato dagli attivisti del Movimento studentesco, a quello dello studente Joseph Israeli, cui toccò la stessa sorte in un’aula dell’Università Statale di Milano perché accusato di essere un “agente del Mossad”. La Federazione giovani ebrei italiani (Fgei) definiva queste aggressioni “linciaggi di sinistra affatto diversi dal fascismo di destra” ma le denunce avevano scarsi effetti e così, di fronte alla Sinagoga di Roma, venne ritrovata una scritta eloquente: “Il manifesto comunista: Nazisti=Cia=Ebrei”.

«In questo clima nessuno si stupì quando il Quotidiano dei Lavoratori - voce di quella sinistra extraparlamentare ansiosa di superare in tutto le tendenze del Pci- con la penna di Giuseppe Vita si scagliò contro uno sceneggiato tv in nome dell’antisionismo. Si trattava di “Mosè, la legge del deserto”: un kolossal a più puntate della Rai con attori del calibro di Anthony Quinn e Burt Lancaster, che raccontava la storia di Mosè in Egitto, le dieci piaghe, il passaggio nel Nar Rosso e in quarantennale attraversamento del deserto del Sinai durante il quale il popolo ebraico ricevette le Tavole della Legge. Ma nella sceneggiatura televisiva- peraltro di grande successo - della storia dell’Esodo il Quotidiano dei Lavoratori non vide altro che “la conferma della supremazia del popolo ebraico” e la “legittimazione dell’aggressione sionista contro gli arabi”. «Le violenze, fisiche o verbali, di questo tipo furono tali e tante da destare non solo la preoccupazione della comunità e delle forze dell’ordine, ma da dicentare oggetto di indagine nel tessuto della società italiana. Fu così che, verso la fine del 1973, la Doxa pubblicò un’indagine da cui emergeva quanto lo “slittamento” fra antisemitisimo ed antisionismo si era realizzato nella sinistra ed in particolare fra i comunisti. I dati raccolti testimoniavano che il 15% del totale degli italiani era favorevole a “buttare gli ebrei a mare e distruggere Israele in cambio del petrolio arabo per l’Italia”, mentre la stessa percentuale fra gli elettori comunisti saliva vertiginosamente fino a sfiorare il 40%».

 

 

ENTEBBE COLPA LORO
Un altro passaggio racconta qualcosa che assomiglia molto al ribaltamento della realtà in corso proprio oggi sul conflitto Israele-Hamas, con gli ebrei accusati di essere i colpevoli: «L’estate seguente, all’indomani della liberazione da parte di un commando di parà israeliani dei passeggeri ebrei di un volo dell’Air France tenuti in ostaggio a Entebbe (Uganda) da un gruppo di terroristi tedeschi e palestinesi, la reazione del Pci fu ancora più dura: “È stato un cinico atto di aggressione fuorilegge, il vero crimine lo ha commesso Israele contro l’Uganda”, scrisse l’Unità il 3 luglio 1976. «Mentre gli ebrei gioivano nelle loro case per la salvezza dei correligionari, giunti sani e salvi a Tel viv al termine di una delle più brillanti operazioni antiterrorismo, la condanna del Pci diede tutta la dimensione dell’abisso che divideva ebrei e comunisti. Non sorprende dunque il giudizio che un marxista israeliano come Arie Yaari, rappresentatne del Mapam per l’Europa, diede del Pci di Berlinguer e di Pajetta: “Il Partito comunista più antisemita di Occidente”». 

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