Emilio Fede, lei sa che...
«... no aspetta, diamoci del tu che siamo colleghi: io mi sento giornalista anche a 94 anni. Lo sarò sempre».
Giusto. Come vuoi essere chiamato: Emilio o direttore?
«Scegli tu. Per tutti, qui, sono il direttore, ma si rivolgono a me con affetto, amicizia. Non ossequio».
Ripartiamo da quella che doveva essere la prima domanda: sai che qualche settimana fa ti hanno allungato la vita? Su internet qualcuno di dava per defunto...
«Ancora? Tanto ci ho fatto l’abitudine e non sono superstizioso».
Hai paura della morte?
«No, uno che, come me, ha scalato il Monte Bianco non teme più niente».
Quando? Racconta.
«Da giovane con Walter Bonatti, tre giorni e tre notti di ghiaccio. Alla fine, a pochi metri dalla vetta, con davanti un buco nero, Walter mi dice: “O saltiamo, o siamo morti”».
E saltate.
«Ecco, la mia vita è stata caratterizzata da tanti momenti come quello. Ho dovuto saltare spesso».
Dicevi che non temi la morte, come è invece il rapporto con la vecchiaia?
«La vecchiaia è brutta, ma la rispetto. Ho appena compiuto 94 anni, sono vicino ai 100: un bel traguardo. In questa struttura mi trovo bene perché ci sono rapporti umani veri. Ho riscoperto l’importanza dell’affetto: il vero potere è avere l’affetto degli altri».
Come passi la giornata?
«Guardo la televisione».
Anche i telegiornali?
«Sì, mi informo. Ma la tv di oggi non mi piace, è diversa da quella che facevo io. Il giornalismo è cambiato rispetto a quando ho iniziato e...».
Direttore, facciamo subito un salto indietro e ripartiamo dall’inizio. Dal piccolo Emilio Fede.
«Nasco a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, il 24 giugno 1931. Papà Giuseppe è brigadiere dei carabinieri, medaglia di bronzo al valor militare perché in periodo di guerra in Africa, sull’Amba Alagi, la montagna che divide l’Etiopia dall’Eritrea, salva 14 carabinieri».
Tua mamma?
«Si chiama Cosma ed è una cantante d’opera».
Sei molto legato a lei?
«Tanto, ma purtroppo la perdo quando sono giovane. Prima del funerale troviamo un suo scialle, che lei stessa ha ricamato, con dentro un biglietto: “Per favore, quando sarò morta, mettetemelo: ho il naso grosso e sono brutta, non vorrei apparire così davanti a Lui”».
Figlio unico?
«No, due fratelli: Antonio e Puccio».
Che bambino sei?
«Vivace, molto vivace. Lavita in quegli anni è dura, c’è la fame e di notte vado a rubare verdure. Ogni mattina, invece, mi mandano a comprare il latte, ma mamma non capisce perché ci metto sempre troppo tempo».
Quale è il motivo? Hai lo sguardo furbo...
«La signora che lo versa si inchina in avanti ed è di bella presenza, un gran vedere...».
Nel frattempo vi trasferite a Ostia. Come nasce la passione per il giornalismo?
«A scuola, con un tema in classe sul terremoto dell’Etna. Sono bravo a scrivere, il mio elaborato viene premiato e inizio a collaborare col giornalino degli studenti».
Frequenti il Liceo?
«Dai salesiani, ma poco prima della maturità mi cacciano».
Cosa combini?
«Allestiamo uno spettacolo religioso nel quale io interpreto il Diavolo: saltando su una rete, ad un certo punto, dovrei entrare in scena a sorpresa».
Ma...
«...mi distraggo, corteggio una bella ragazza e perdo l’attimo. Risultato: il Diavolo non appare, spettacolo rovinato».
Dopo il Liceo ti iscrivi all’università?
«Giurisprudenza a Roma, però non mi laureo perché nel frattempo ho già cominciato a scrivere e ad appassionarmi al giornalismo».
Come?
«Faccio la gavetta al Messaggero. Quando ho 14 anni conosco il capocronista, gli divento simpatico e tutte le mattine gli porto la brioche con il caffè. Un giorno c’è un appuntamento importante: Giuseppe Di Vittorio, fondatore e segretario generale della CGIL, va in piazza per annunciare il primo sciopero generale. In redazione, però, non ci sono cronisti disponibili, mi chiedono: “Vai tu? Te la senti?”.
Ovviamente accetto». Fai un buon pezzo?
«Mi siedo vicino a Di Vittorio e gli sorrido mentre parla, parla, parla. Quando finisce mi presento e mi dà tutti i suoi foglietti: “Prendi questi, così farai prima”. Corro al Messaggero, vado dal capocronista e gli consegno i fogli pensandoci sia tutto il discorso. Invece sono soltanto delle note illeggibili. E mi accompagnano all’uscita insultandomi».
Poi che fai?
«Mi invento la rubrica “Arrivi e partenze” per raccontare la quotidianità di Ostia, faccio il giro degli alberghi per raccogliere pettegolezzi, inizio a collaborare anche con Il Momento di Roma e divento amico del capo tipografo».
E cosa c’entra questo?
«Poi capirai».
Continuiamo allora.
«In quel periodo sono fissato col giornalismo, vado dall’unico edicolante di Ostia e lo convinco a fare l’editore: così nasce Il settimanale del Lido, del quale sono direttore a soli 16 anni».
Che notizie pubblicate?
«Un po’ di tutto compresa la cronaca nera, perché papà è carabiniere e riesco a prendere i fonogrammi con le notizie».
Quanto dura il settimanale?
«Poco, fallisce nel giro di alcune settimane».
Cosa combini?
«Organizzo una grande serata di gala nel ristorante del Lido, ma quando finisce tutto e sto per andarmene arriva il proprietario del locale: “Scusa, Emilio, ma qui chi paga?”. “L’edicolante”, rispondo. Il quale però non ha soldi...».
Direttore, perché sorridi?
«La parte più bella arriva ora».
Prego.
«L’ospite d’onore della serata è Gina Lollobrigida, figlia del capo tipografo de Il Momento, quello che ti dicevo prima. Sono le due di notte e la sento urlare: “Emilioooo, ma come torno a Roma?”. Io non ho una lira e non c’è nessuno che va in quella direzione, però mi viene un’idea: c’è un camion che ogni notte porta frutta e verdura al Mercati Generali di Roma. Chiedo se hanno un posto e la faccio caricare nel retro del mezzo, all’aperto, tra cavoli, pomodori e finocchi».
Meraviglioso. Fallito il settimanale che fai?
«Quelli del Messaggero si ricordano di me e li convinco ad affidarmi, visto che il loro cronista mondano è ammalato, un servizio a Taormina, che conosco bene essendo siciliano».
Di cosa si tratta?
«La premiazione del film “Vacanze romane”. Mi faccio prestare una giacca da un cameriere e incontro Audrey Hepburn, dicendo di essere l’inviato del giornale. $ giovane e bellissima. Dopo la cerimonia c’è la festa e le dico: “Quando riparti?”. “Dopodomani, vado a Roma”. “Anche io, andiamo insieme?”. Dice di sì, ma devo spiegarle che Emilio Fede - anzi Il direttore come lo chiamano tutti - ha 94 anni e vive in una residenza per anziani, ma non per questo si sente vecchio. Tutt’altro. Camicia bianca, maglioncino rosa («Ho sempre amato i vestiti colorati»), scarpe da ginnastica, si racconta con entusiasmo e ironia: l’infanzia, gli inizi nel giornalismo, gli anni in Africa come inviato speciale e non ho l’auto e così le propongo il treno “che è più romantico e vediamo il paesaggio”».
Accetta?
«Certo. Arriviamo a Roma e ci frequentiamo, le mando fiori, la porto a cena. Finché un giorno arrivo in redazione e l’usciere mi dice: “Emilio gira al largo, il direttore ha scoperto tutto”. Capito? Aveva trovato il conto dei taxi, degli hotel, dei ristoranti, dei regali: tutti soldi fatti spendere al giornale».
Nel 1958 inizi a collaborare con la Rai, come conduttore a contratto, nel programma “Il circolo dei castori”. Con te c’è Enza Sampò...
«E' bella e intelligente, me ne innamoro subito. Il problema è che sono innamorato anche della regista Dada Grimaldi e sto con entrambe contemporaneamente».
La Sampò lo scopre?
«Va in vacanza con la famiglia e quando torna vado a prenderla con la mia Fiat 1100 spider color beige. Apre lo sportello e si arrabbia. Non capisco, poi guardo meglio e sul sedile ci sono gli occhiali della regista. Fine della storia con Enza e di un amore bello».
Tre anni più tardi entri stabilmente in Rai e diventi inviato speciale: ti mandano in Africa.
«Il mio è il primo incarico di inviato itinerante e giro tutto il continente, che è magico, realizzando servizi nel periodo dell’inizio delle guerre civili».
Un incontro che non dimenticherai mai?
«Con Hailé Selassié, ultimo imperatore d’Etiopia. Lo intervisto, raccolgo un documento incredibile ma finisco con una gaffe clamorosa».
Cioè?
«Dopo i saluti sto per andare, sento un cane abbaiare, mi giro e combino il guaio: la regola, lì, è di non dare mai le spalle all’imperatore. Io lo faccio e mi portano via a forza».
Direttore, chiudi gli occhi e pensa all’immagine più brutta vista in Africa.
«I quartieri poveri e i “tucul”, le capanne adattate a coffee bar: un bancone, una tenda e dietro ragazze che si prostituiscono».
Un odore che ti è rimasto impresso dell’Africa?
«Quello speziato dello “zighinì”, il piatto tipico».
Un suono?
«La musica dei balli tipici popolari nelle foreste».
Dopo 8 anni ti ammali di malaria, rientri in Italia, lavori con Sergio Zavoli, dal 1976 conduci il Tg1 e poi, dal 1981, diventi il direttore. Proprio in quell’anno, il 10 giugno, il piccolo Alfredino cade in un pozzo a Vermicino. E voi raccontate tutto in diretta.
«Nella riunione delle 12 chiedo se c’è qualcosa di attuale e il caporedattore dice: “Direttore, è arrivata una telefonata dai vigili del fuoco, stanno andando a Vermicino per salvare un bimbo caduto in un cunicolo”. Trovo che sia una notizia che può accalappiare il pubblico e decido di seguirla bene, pensando di raccontare una storia a lieto fine, il trionfo della vita. Ma purtroppo diventa la cronaca di una morte».
Fate 18 ore di diretta.
«Resto sempre in studio senza chiudere occhio. Il momento più terribile è quando si cala nel buco Angelo Licheri, il soccorritore, nel silenzio più totale. “L’ho afferrato, l’ho afferrato”, urla da sotto terra. Poi altro silenzio. “L’ho perso, l’ho perso”. Questo dramma mi è rimasto dentro, è uno dei peggiori che ho raccontato».
In quegli anni sei lanciatissimo: ti candidi al parlamento europeo e sei in corsa per la presidenza Rai.
«Un momento magico, ma resto impigliato nella rete del gioco d’azzardo. In quel periodo vado spesso al Casinò e mi “mangio” cifre importanti».
Ma vinci anche: un colpo storico?
«Un miliardo a Montecarlo, in società con un commerciante di scarpe romeno».
Blackjack o roulette?
«Entrambi».
Ti accusano di associazione a delinquere, ma alla fine vieni assolto.
«Però perdo tutto e mi dimetto dalla Rai. Per fortuna mi chiamano a ReteA, dove faccio partire il primo Tg nazionale privato».
Evento storico.
«L’idea mi viene vedendo fatti locali che potrebbero avere portata nazionale. Assumo un vigile urbano e gli faccio fare il cronista, un pasticcere diventa redattore e creo il TgA in diretta, anche se in quel momento non si può, non c’è l’autorizzazione».
E che succede?
«Vengo denunciato, aprono un’inchiesta e mandano un tecnico del Ministero delle Finanze perché sostengono abbia violato la legge. Dico al tecnico: “Se si siede lì di fronte a me si accorgerà che, sia pur minimamente, c’è un ritardo tra la parola e l’immagine».
È vero?
«No, ma lo affermo con così tanta convinzione che ci crede. Ed evito multa e chiusura della rete».
In poco tempo ti nota la Fininvest. Come è il primo incontro con Berlusconi?
«Sono con Galliani e arriva il Cav, che mi vede in compagnia di una donna e mi saluta da lontano: “Guarda questo, non cambia mai”. E io: “Perché, lei?”. Galliani mi invita a cena, parliamo e mi dice che stanno cercando un direttore, io rispondo che sto cercando un editore. Allora organizza un incontro con Berlusconi, il quale mi chiede se voglio lavorare per lui. Prende un pezzettino di carta, segna una serie di cifre, telefona al direttore del personale e gli dice: “Verrà da lei Emilio Fede, lo assumiamo e gli dia quello che vuole”».
Vero che Berlusconi in quel periodo controlla tutto?
«Una notte, circa alle 3, mi chiama. “Senti, Emilio, devi cambiare l’evidenziatore della rassegna stampa perché il giallo non sta bene”».
Incredibile. Dirigi prima Videonews e poi Studio Aperto, il notiziario di Italia 1: il 6 gennaio 1991, al debutto, siete i primi ad annunciare l’operazione “Desert Storm” durante la Guerra del Golfo.
«Siamo un gruppo di matti, non dormiamo mai. Quella notte mi sento che sta per succedere qualcosa, siamo in 10 ad aspettare e squilla il telefono: ci siamo. Parte la diretta con la giornalista Silvia Kramer, da New York, che urla: “Hanno attaccato, il cielo di Bagdad è pieno di aerei americani”. $ l’inizio della Prima Guerra del Golfo e diamo un buco a tutti con 40 minuti di anticipo».
In anteprima, poi, annunciate pure la liberazione di Bellini e Cocciolone.
«Intercetto le immagini di Tareq Aziz e intuisco, vedendo un gesto che poteva significare vittoria, che sono stati liberati i due italiani. Do subito la notizia, ma poco dopo Carmen Lasorella, su Rai 1, dice che ho speculato sulle vite di quei soldati, che non sono vivi».
Urca.
«L’Ansa però la smentisce immediatamente, così alzo il telefono e la chiamo: “Carmen, la tua è un’informazione in guepierre”. E metto giù».
Buona questa. Scoop, polemiche, ma pure una gaffe storica diventata un tormentone. Hai già capito, vero?
«Sono in redazione e le agenzie annunciano che è stato catturato Saddam Hussein. Clamoroso, faccio l’edizione straordinario, do la notizia e dico in diretta: “E ora vi mostro la prima immagine di questo feroce assassino...”. Ma dalla regia sbagliano e mandano in onda la fotografia di Berlusconi. E io: “Cheffigura di merda”».
Nel 1992 ti nominano direttore de Tg4, poi conduci il ciclo “Le grandi interviste” e dal 2000 curi “Sipario”, mentre nel 2014 si conclude il tuo rapporto con Mediaset. Il licenziamento, le polemiche, il Bunga Bunga, le vicende giudiziarie le lasciamo perdere che se ne è discusso fin troppo. Direttore, parliamo invece della tua vita privata. E di tua moglie Diana de Feo: come vi conoscete?
«E' il 1964 e lei lavora per il Giornale d’Europa. La mandano a Torino per fare un servizio su Edward Whymper, che 100 anni prima ha scalato il Cervino. Da Roma, alla Rai, mi chiedono di accompagnarla perché sono esperto di montagna, e di trattarla bene perché suo padre potrebbe diventare presidente dalla Rai. Il nostro è un colpo di fulmine, nel 1965 ci sposiamo a Napoli e nascono Sveva e Simona».
Il 23 giugno 2021 tua moglie muore.
«Ma è ancora con me, sarà sempre con me».
Ti manca?
«Da impazzire».
Due anni dopo, il 12 giugno 2023, muore anche Berlusconi.
«Un amico generoso, intelligente, un fratello che nei miei confronti ha sempre avuto un affetto totale. Mi manca molto anche lui: queste, così ravvicinate, per me sono state due perdite importanti».
L’ultima volta che ti sei sentito con il Cav?
«Natale 2022, io sono in carrozzina, appena operato dopo una brutta caduta. Mi telefona e mi invita a festeggiare da lui, ma non sono in condizioni di andarci, sarei a disagio e sono costretto a rifiutare».
Direttore, ultime domande veloci.
1) Rapporto con la religione?
«Credo che lassù ci sia qualcuno, vado sempre a messa. Il legame con Dio è cambiato quando ho ricevuto la comunione dalle mani di Papa Wojtyla: sono bastate una carezza sul viso e poche parole».
2) Cosa pensi dei giovani?
«Sono troppo distratti dalle polemiche politiche».
3) C’è qualcuno che vorresti riabbracciare?
«Mia madre».
4) Come ti sembra il giornalismo di oggi?
«Te lo dirò quando rivedrò del vero giornalismo».
Ultimissima: a 94 anni hai ancora un sogno?
«Arrivare al più presto accanto a mia moglie».
