Ancora una volta censurato. Probabilmente il primo a non essersene stupito sarebbe stato proprio lui, Michail Bulgakov, che per tutta la vita, non lunghissima ma certo intensissima (è nato a Kiev nel 1891 ed è morto a Mosca nel 1940), ha accumulato il non invidiabile record di persecuzioni, censure, boicottaggi per via delle sue opere. Lo è stato ai tempi di Lenin e poi di Stalin, lo è oggi ai tempi di Putin. Del resto, i suoi testi possiedono la qualità rara di infastidire seriamente il potere, il pensiero unico e dominante, lo schematismo e la mediocrità. Accade così che il film ispirato al capolavoro di Bulgakov, il monumentale Il Maestro e Margherita - uscito postumo dopo lunghi travagli - firmato dal regista Michael Lockshin e ora giunto anche in Italia, abbia affrontato problemi di censura, in Russia a causa dei temi politici e della satira sul potere sovietico che si è trasformata in satira sul potere russo odierno. Il Maestro e Margherita sarebbe dovuto uscire nel 2022 ma è stato posticipato dopo la decisione della Universal, la casa di distribuzione internazionale, di abbandonare i progetti russi in seguito all'invasione dell’Ucraina. E chissà che cosa avrebbe provato lo scrittore nel vedere la sua città natale, la sua Kiev, presa di mira dai missili e dai droni russi... Il film in questione è ambientato negli anni Trenta ma con echi della contemporaneità. Nonostante il successo iniziale nelle sale, e persino un finanziamento ottenuto con fondi pubblici, il film è stato criticato e in parte boicottato per le sue presunte allusioni critiche al regime di Putin. Il regista è americano e, dopo l’uscita del film in Russia, ha lasciato il Paese per mettersi al sicuro.
È figlio di uno scienziato russo emigrato in America e ha criticato immediatamente l’invasione e ha invitato a sostenere l’Ucraina. Una vicenda che diventa incarnazione simbolica delle difficoltà incontrate dallo stesso Bulgakov nel pubblicare il suo romanzo durante il regime sovietico. E un monito costante: la libertà di espressione e la lotta contro l'autoritarismo non sono acquisiti per sempre, non sono scontati, devono essere difesi ad oltranza. In Italia, poi, è in uscita, il 1 agosto, una nuova traduzione di Diavoliade, un racconto lungo, o romanzo breve a seconda dei punti di vista, (Mattioli 1885 editore, pp. 96, euro 10) a cura di Paolo Nori, che ne ha anche scritto l’interessante introduzione. Il testo ha anche un valore storico-critico, perché vi si trova il germe del mirabolante racconto del successivo capolavoro Il Maestro e Margherita. Si torna indietro di almeno dieci anni, sempre Mosca è il teatro dell’azione, la Mosca caotica e surreale degli anni ’20, in cui si consuma la stralunata odissea dell’umile impiegato Korotkov, la cui tranquilla e dimessa esistenza comincia a sgretolarsi quando, a causa di uno scambio di identità, perde il lavoro in una fabbrica di fiammiferi. Inizia un frenetico inseguimento attraverso uffici labirintici, direttori che si trasformano in gatti volanti e situazioni sempre più assurde. Un viaggio senza ritorno nella vita capovolta, nel mondo alla rovescia creato dalla dittatura. L’angoscia esistenziale dell’uomo novecentesco si somma e si centuplica nel labirinto sovietico.
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Bene, bravo, bis. Applausi a scena aperta per la bacchetta posata sul leggio, la partitura chiusa, il silenzio nella sal...Del resto, lo scrittore aveva concepito fin dall’inizio una diffidenza, se non avversione, per quello che la rivoluzione di Ottobre aveva già messo in moto. Tanto è vero che, come ricorda Nori nella sua prefazione, nel 1917 aveva scritto alla sorella: «Recentemente, viaggiando a Mosca e a Saratov, sono stato costretto a vedere tutto di persona e non ho voluto vedere altro. Ho visto come le folle grigie, con urla, fischi e imprecazioni rivoltanti, picchiavano sui finestrini nei treni, e picchiavano le persone. Ho visto case distrutte e incendiate a Mosca... Volti ottusi e bestiali. Ho visto le folle che assaltavano i portoni di banche occupate e serrate, code affamate alle botteghe, ufficiali tartassati e miserabili». Successivamente si rende conto che dalle violenze e dalle sofferenze provocate dall’impeto rivoluzionario, sta nascendo un mondo nuovo, sì certo, ma più simile ad un incubo che ad una stagione di rinascita sociale. Racconti, testi teatrali, critiche pesantissime. Un climax che registrerà un crescendo proprio da Diavoliade, con cui cominciano i problemi seri di Bulgakov con la stampa sovietica, che culmineranno negli anni Trenta. A testimonianza, la nota lettera che Bulgakov scrive a Stalin e al governo sovietico nel marzo del 1930. Nella lettera, citata sempre da Nori, lo scrittore ricorda: «Hanno scritto di me come di uno “Spazzino della letteratura”, che raccatta gli avanzi “vomitati da una dozzina di commensali”. E altre pacate espressioni di disprezzo della critica militante verso quell’opera che non capisce fino in fondo, ma percepisce come “pericoloso”».
In Diavoliade ciò che emerge non è certo la visione del paradiso sovietico in costruzione, ma l’alienazione dell’uomo comune intrappolato nella burocrazia, sperduto e al limite della follia, alle prese con irrefrenabili metamorfosi diaboliche, trasfuse in una scrittura frenetica, ricca di invenzioni stilistiche che a tratti fanno pensare ai ritmi sincopati e meccanici dei futuristi. Con toni grotteschi e visionari, lo scrittore diffonde davvero quei “semi del diavolo”, usando un’altra citazione ricordata da Paolo Nori, che poi germineranno rigogliosi nella terra misteriosa del Maestro e Margherita.