Andrea Camilleri, un mondo che si fa cultura: gli affetti, gli amici, il teatro della vita

di Pietrangelo Buttafuocodomenica 3 agosto 2025
Andrea Camilleri, un mondo che si fa cultura: gli affetti, gli amici, il teatro della vita
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Di andarsene, nel senso compiuto della scomparsa, Andrea Camilleri – scrittore e artista – non se n’è mai andato. Riposa nella sua tomba romana, all’ombra della Piramide Cestia, e si avvia alle celebrazioni del Centenario dalla nascita, giusto il 6 settembre prossimo, confermando, con la sua opera, la viva festa di popolo che da sempre corona la sua presenza in scena. Uno che a novantatré anni suonati, ormai cieco, si mette in mezzo al palcoscenico per raccontarsi tale e quale Tiresia – accadeva l’11 giugno 2018 al Teatro Greco di Siracusa (regia di Roberto Andò) – non può che farsi applaudire ancora e ancora in forza della sua generosità.

Traboccante di talenti, prodigio tutto di fantasia, Camilleri capacissimo di far di fatti minimi una meraviglia, è quello che ancora qualche giorno fa Valentina Alferj – per vent’anni al suo fianco – raccontava in una splendida intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, la perfetta macchina della letteratura: «Arrivavo in studio e gli dicevo...», così racconta Alferj «Sai, stamattina i miei figli, Andrea e Gilda, non sono andati a scuola perché avevano la febbre. Finito. Dopo un po’, se qualcuno arrivava in stanza, Camilleri partiva: Sai che è successo stamattina? I figli di Valentina si sono svegliati presto, avevano gli occhi lucidi e un gran caldo. Si sono guardati tra di loro e quatti quatti, senza svegliare la mamma, sono andati in bagno a cercare il termometro. Andrea, felice, ha visto che aveva la febbre a 38, ha passato il termometro senza abbassarlo alla sorella e... miracolo! Anche lei aveva la febbre a 38. Si sono infilati nel lettone di Valentina e hanno iniziato a leggere a due voci una storia alla mamma...».

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Una lettura a due voci è la prosa di Camilleri, teatrante nell’essenza, di cui una è la sua poetica tutta di ragionamento – unflatus degno di Occam – l’altra è la sua stessa sapienza scenica dove la parola riluce di architetture sempre vivide. E ovviamente gioiose, come quando inventa una lingua tutta sua con cui far parlare l’intero mondo, svelato di persona personalmente fumando e fumando sempre. E ridendo. Di andarsene, Camilleri, non se n’è mai andato perché in lui è sempre viva la specialissima idea della vita chiamata magnanimità. Se solo sapeste quello che ha fatto con le ragazze e i ragazzi che ha formato – al tempo del suo magistero alla Silvio D’Amico, l’Accademia suprema di drammaturgia – ne fareste il canone di paideia come neppure con Socrate si può mai immaginare. Tanti Platone al suo seguito, dunque, come con Emma Dante, portatrice sana di un teatro organico – tutto di carne e sangue – come Antonio Manzini, di fatto il suo vero e unico erede nella scrittura, oppure Davide Iodice, oggi tra i più applauditi maestri della scena teatrale internazionale, cui Camilleri, vedendolo arrivare in scooter ogni giorno da Napoli, volle aiutare come meglio poteva per tutti gli anni di studio. Un’idea della vita, quella di Camilleri, incardinata nell’agape di levità e amicizia. Pare di rivederlo ragazzino, nella sua Porto Empedocle, a fare il gioco della mosca in spiaggia con i suoi quattro amici.

Sdraiati sulla sabbia, ad arrostire sotto il sole, ciascuno con una moneta per una certa singolar tenzone. Ognuno sputa sul proprio soldino e vince quello sulla cui moneta, per prima, arriva a posarsi la mosca. La sua formazione mentale coincide con l’idea attiva di amicizia. Tutta di attesa e disciplina. Fosse pure l’attesa di uno sputo che si asciuga al sole. Di Elvira Sellerio, l’amica del cuore, Camilleri ricorda sempre che anche se avessero venduto lavatrici, invece che l’infinità di libri che si ritrovarono a vendere, sarebbero diventati amici dell’anima. Nella disciplinata pazienza che forgia l’amicizia, infatti, quella che lui avrà come punto di riferimento per tutta la sua vita, Camilleri fa il fondamento del narrare e poi narrare che va a costruire il castello fatato della sua inarrivabile fabula. Nato figlio unico, Camilleri ebbe regalata da sua madre una bambola alta quasi quanto lui che divenne ben presto sua sorella. Le diede anche un nome. E fu proprio lei – la pupa – il primo pubblico ad ascoltare le sue storie.

Il giovane Andrea – chiamato Niria in famiglia – riportava a lei tutti i racconti della giornata: le passeggiate con la nonna, i cunti che sentiva sotto gli alberi dal contadino Minico, la storia del medico volante Borsellino, e poi ancora quella di Pirandello che arrivava in casa vestito con l’uniforme di Accademico d’Italia, chiedeva al bimbo di far venire la nonna con cui poi si chiudeva in un salottino per farsi i cunti della loro giovinezza. Camilleri che fa cent’anni di anniversario racconta a noi il comandamento civico numero uno e cioè che solo l’agorà, solo il racconto della comunità, fa cultura. Al chiuso di una Torre eburnea, insomma, nulla si può fare. Piuttosto che cattedrali nel deserto, è sempre più opportuno costruire chiesette di campagna a disposizione degli altri, di tutti, e sempre lavorando nelle condizioni più impossibili, sempre nel frastuono vivificante della vita affaccendata immancabilmente in altro, non certo nella immusonita prosopopea della Cultura col C maiuscolo. Cos’altro è la squadra stretta intorno a Montalbano, tutto il presepe dei personaggi che popolano le storie, se non la giornata di tutti, incurante di far narrativa, nel frattempo, che sorge la letteratura?

Tutto quello che Camilleri voleva dire lo ha detto, nei suoi libri, nelle sue finzioni, nelle sue interviste e nei suoi saggi. E nei suoi affetti. In tutti i suoi racconti, Camilleri tende a ricordare con generosità e agape tutti coloro che parteciparono alla sua vita, e non solo al suo successo. Rosetta Dello Siesto, la moglie, era la prima lettrice e critica dei suoi libri. Camilleri racconta che bastava un piccolo movimento della punta del naso per fargli riconoscere che quella pagina l’avrebbe potuta scrivere meglio. In Camilleri – ragazzo centenario come mai nessuno – dentro e fuori dalla letteratura, nella sostanza sempre cocente del suo essere teatro, c’è sempre stato il compimento di una trama di legami anche curiosi. Uomo del secolo scorso – solida roccia – ha vissuto il fascismo, trasfigurato nella figura del padre amatissimo; quindi, il comunismo, da militante, agli albori della Seconda Guerra Mondiale.

Ha vissuto il disincanto Camilleri, ha attraversato con eguale distacco i fallimenti e i clamorosi successi, addirittura anche la sua stessa aura di autorità intellettuale e morale della quale non ne faceva un totem, piuttosto un punto di partenza per incontrare – facendone un sodalizio operoso in Sicilia – un uomo di tante battaglie, tutte di destra, qual è Fabio Granata, già ragazzo del Msi al seguito di Paolo Borsellino nonché bravissimo assessore regionale dei Beni Culturali.

Camilleri coincide esattamente con i suoi amici: Salvatore Silvano Nigro, sommo critico letterario, che scrive i risvolti di copertina dei suoi libri; Carlo Degli Esposti, il produttore e realizzatore del suo immaginario nello “specifico filmico” come si sarebbe detto una volta, sorridendone oggi; Orazio Costa, maestro di drammaturgia, che con lui inventò il teatro; Giuseppe Dipasquale, regista, suo allievo, che ha portato in scena il suo repertorio teatrale; Elvira Sellerio, prima donna dell’editoria di scoglio e di mare aperto; Antonio Manzini, di cui s’è già detto – nuovo Camilleri anche nelle vendite – e infine Valentina Alferj. Anche di lei s’è già detto ma ancora altro c’è da dire. E da leggere. PS: Una trama di affetti dove anche io, lontano dalla sua educazione politica, ho potuto condividere con lui cose piccole ma abissali tanto che i famosi arancini di Montalbano per me sono gli arancini, giammai più arancine.

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