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Facci: "Quel pm intralcia le indagini". L'inchiesta Expo è una faida

Ignazio Stagno
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Ora c'è anche una nota di Edmondo Bruti Liberati, inviata al Csm, secondo la quale il procuratore Alfredo Robledo avrebbe «determinato un reiterato intralcio alle indagini» su Expo; l'invio di atti al Csm fatto da Robledo, inoltre, avrebbe «posto a grave rischio il segreto delle stesse». In altre parole, la miglior difesa è l'attacco: Bruti Liberati contrattacca alle accuse di Robledo d'aver fatto assegnazioni anomale o sospette e aggiunge peraltro un carico da novanta: perché intralciare un'indagine sarebbe anche un reato. È difficile credere che Bruti Liberati voglia incolpare penalmente il suo sostituto, ma quel che è certo è che a Milano gli stracci volano sul serio: ed è tutta colpa del caso Expo. Il fascicolo è seguito dai pm anticorruzione Claudio Gittardi e Antonio D'Alessio, ed è noto che Bruti Liberati, durante la conferenza stampa sugli arresti per Expo, aveva già precisato che Robledo non ne aveva condiviso le conclusioni: ora aggiunge che avrebbe addirittura intralciato l'inchiesta. Bruti Liberati, nella sua nota al Csm, cita anche l'episodio di un doppio pedinamento: «Robledo, pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un'attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati svolta da personale della polizia giudiziaria, ha disposto analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Guardia di Finanza», ha scritto il procuratore capo, spiegando poi che «solo la reciproca conoscenza del personale Gdf che si è incontrato sul terreno ha consentito di evitare gravi danni alle indagini». Nei fatti, il low profile della procura di Milano è definitivamente turbato. Lo scontro oltretutto divide i magistrati. Da una parte il procuratore aggiunto anticorruzione Alfredo Robledo, l'anarchico, dall'altra il procuratore capo di quel granducato giudiziario che negli anni ha scosso il Paese con sue inchieste, Edmondo Bruti Liberati, personaggio più - diciamo così - militante. Intanto il Csm sta continuando con le audizioni dei magistrati chiamati in causa: si discute di presunte anomalie nelle assegnazioni, ritardi di iscrizioni nel registro degli indagati, soprattutto tensioni che covavano da almeno tre anni. Robledo sostiene che è stata ritardata l'iscrizione di politici come Roberto Formigoni e Guido Podestà, che l'azione penale è stata gravemente ritardata nel caso Sea-Gamberale (il fascicolo era stato dimenticato in cassaforte, ha ammesso Bruti Liberati) e questo senza parlare del chiassoso caso Ruby, laddove il fascicolo era curiosamente finito al dipartimento antimafia guidato da Ilda Boccassini. Su quest'episodio c'era stata anche l'ammissione, resa nota nei giorni scorsi, di Ferdinando Pomarici, ex responsabile della Dda di Milano: quell'assegnazione fu «anomala», ha detto. Il magistrato ha pure spiegato che scrisse a Bruti Liberati tutte le sue perplessità a proposito, poi ribadite durante una riunione. Pomarici ha anche segnalato un'anomalia legata al caso di Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale già condannato al carcere per diffamazione: secondo Pomarici, Edmondo Bruti Liberati voleva che si facesse una deroga personalizzata per il direttore. La circostanza peraltro era già stata ammessa dal procuratore aggiunto Nunzia Gatto, responsabile dell'Ufficio esecuzione della Procura. Insomma, tutto rispecchia le storiche divisioni della procura, sinora sottaciute: gli uomini del procuratore capo - storicamente più legati a Magistratura democratica - contro gli altri. Va da sé che secondo Francesco Greco, responsabile del pool sui reati finanziari e legato a Bruti, nell'iscrizione di Formigoni non ci fu «nessun ritardo». Nessuna irregolarità neanche nel caso Ruby, ha spiegato anche Ilda Boccassini (vedi Libero di ieri). Più in generale, lo scontro tra il procuratore capo e il suo aggiunto è molto più interessante dei resoconti che i giornali si sforzano di darne; sull'esito dell'esposto di Robledo contro Bruti Liberati non c'è da attendersi chissà che cosa: stiamo pur sempre parlando di un magistrato contro un altro magistrato, giudicato da altri magistrati. Pare più interessante, leggendo gli atti del Csm, il differenziato profilo che si intravede. Bruti Liberati uomo d'apparato, di corrente, politicizzato, sensibile agli scenari politici e ai suoi cambiamenti, alle conseguenze delle inchieste che nascono dai suoi uffici: dunque un abile amministratore. Robledo, invece, più compiaciuto della propria indipendenza sancita dalla Costituzione, più immediato, automatico, quasi precipitoso, convinto che una certa ruvidità faccia parte dei suoi doveri e ufficialmente indifferente alle conseguenze delle sue indagini. È difficile essere più diretti senza prendere la solita querela: ma piacerebbe dire che entrambi i profili, se portati all'eccesso, descrivono alla perfezione il periglioso archetipo del magistrato all'italiana. Sin troppo responsabile e «politico» il primo, sin troppo anarchico il secondo. Quello che rimane identico, sempre leggendo gli atti del Csm, è lo scenario enormemente discrezionale nel quale i due paiono muoversi all'interno della procura: non quel tappeto di regole inflessibili e rigide che il cittadino magari s'aspetta (perché il magistrato è soggetto soltanto alla legge, si dice) bensì un groviglio gommoso di dipartimenti, mezzi dipartimenti, non-dipartimenti, assegnazioni, coassegnazioni, non assegnazioni, iscrizioni, non iscrizioni, in generale una discrezionalità dell'azione penale ben travestita. Un potere smisurato, in altre parole, che si può esercitare in un modo o nell'altro: e capita che non sempre i magistrati si trovino d'accordo. di Filippo Facci

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