Cerca
Logo
Cerca
+

Il bacio con Riina che salvò BelzebùFacci riscrive la storia di Andreotti

Filippo Facci

Soltanto dopo la morte del Divo è possibile valutare i clamorosi errori commessi da Caselli & Co, che si basarono interamente sulle accuse dei pentiti

Andrea Tempestini
  • a
  • a
  • a

  di Filippo Facci @FilippoFacci1 Magari l'avete rivista nel film ritrasmesso ieri, «Il divo»: la scena del bacio che secondo il pentito Baldassarre Di Maggio ci sarebbe stato tra Giulio Andreotti e Totò Riina, l'emblema della contiguità tra la politica e la mafia, l'immagine che tramortì l'immaginario dell'opinione pubblica e alimentò titoli di giornali in tutto il mondo, e poi vignette, battute, i più luciferini luoghi comuni sull'autentica e corrusca natura di Andreotti. Ai tempi, tra addetti ai lavori, circolava un tomo pubblicato da Pironti che simboleggiava una stagione non solo editoriale: «La vera storia d'Italia», sottotitolo «Giancarlo Caselli e i suoi sostituti ricostruiscono gli ultimi vent'anni di storia italiana». Ecco: il macroscopico errore della procura, il vero boomerang di tutta l'inchiesta, insomma il bacio, nel tomo è descritto in tutti i suoi supposti particolari.  Si accennava al 20 settembre 1987 come «una delle possibili date dell'incontro tra Andreotti e Riina», durante la Festa dell'Amicizia della Dc di Palermo, ma non si escludevano altre date: lo statista a loro dire poteva muoversi «senza lasciare alcuna traccia» con possibilità di «sottrarsi al controllo delle scorte». Dall'ora di pranzo al tardo pomeriggio, si leggeva, «nessuno è in grado di riferire» i movimenti di Andreotti di quei giorni, tantomeno il fidato caposcorta Roberto Zenobi che seguiva il senatore dal 1977 e che fu definito dagli inquirenti come «supinamente fedele»: questo per via di un atteggiamento ritenuto forse poco collaborativo. Il pentito Baldassarre di Maggio, invece, fu collaborativo. Era stato uno degli uomini più fidati di Riina. Il 15 gennaio 1993 aveva indicato ai magistrati l'abitazione segreta del capo di Cosa Nostra e ne aveva favorito la cattura dopo un ventennio di latitanza: insomma era credibile, o lo sembrava.  Notevole che a servire il «bacio» a Caselli, su un piatto giudiziario d'argento, fu il procuratore Giuseppe Pignatone, suo nemico storico assieme a Piero Grasso. Le dichiarazioni di Balduccio Di Maggio infatti furono rese inizialmente a Pignatone, che pure seguiva un altro filone. «Il verbale di Di Maggio ce lo portarono loro» ha confermato Gioacchino Natoli. Di Maggio, nel verbale, descrisse quando passò a prendere Riina e lo portò alla casa palermitana di Ignazio Salvo per favorire il mitico incontro. Ebbe luogo in soggiorno: c'era anche Salvo Lima, disse; «Riina saluta con un bacio su entrambe le guance prima Andreotti e poi Lima». Un'esibizione rituale che nel tomo, e nell'istruttoria, è descritta per una decina di pagine: quel bacio voleva far capire ad Andreotti, secondo i magistrati, che «egli non può prendere le distanze: deve sempre ricordare che lui e Riina sono la stessa cosa».  Col senno di poi, anche i magistrati - Gioacchino Natoli, Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, oltre a Caselli - hanno riconosciuto che impelagarsi nella faccenda del bacio fosse fu un errore. Caselli l'ha raccontato nel libro «Andreotti» di Massimo Franco (Mondadori 2008) e ha detto che l'episodio si poteva pure «tagliare», nel senso che non era poi così probatoriamente rilevante: c'era ben altro, a suo dire. Anche Lo Forte ha detto più o meno lo stesso: «L'elemento più sorprendente, il bacio, non ha giovato alla comprensione della vicenda giudiziaria, ha fatto perdere di vista all'opinione pubblica gli elementi più importanti».  Nelle pagine dell'accusa, però, di dubbi non ne trapelavano. Di perplessità non vi è traccia. Semmai, a rileggerle, affiora qua e là una certa esaltazione, una singolare determinazione, perlomeno una cieca fiducia nei propri mezzi. L'episodio del bacio, si legge, poteva essere capito solo da chi, come il pool dei magistrati, era in possesso di un «sapere specialistico» rispetto a un'opinione pubblica «priva di strumenti culturali» adeguati. Perbacco. E chi altri li possedeva, gli strumenti culturali adeguati? Secondo il fondatore di Magistratura democratica Livio Pepino, nel suo libro «Andreotti, la mafia, i processi» (Ega 2005) li possedeva il comico Ciccio Ingrassia: «Da siciliano vi dico che, se Andreotti e Riina si sono incontrati, si sono baciati».   Del resto occorre tenere conto del clima in cui nacque l'indagine: «Andreotti a grande richiesta» fu il titolo del Giorno di Paolo Liguori quando il senatore fu ufficialmente indagato. In quel terribile 1993 non sembravano esserci dubbi circa l'impossibilità di fermare la tempesta giudiziaria che si abbatteva finalmente anche su di lui: era lecito credere che il pool antimafia avesse la vittoria in pugno. Quello, del resto, era «il processo del secolo», e la potenza immaginifica di quel bacio non fece temere che ci si potesse infilare in un labirinto di date e contraddizioni come poi avvenne: da immagine-testimonial, quel bacio sarebbe divenuto un formidabile tallone d'Achille capace di  trascinare il processo in un ingorgo di incertezza. Giancarlo Caselli ha trovato il modo d'incolpare la lingua biforcuta dei giornalisti: «Sono i media che hanno fatto diventare il bacio l'elemento essenziale per delegittimare il processo dall'esterno, sono i media che hanno scelto di concentrare l'attenzione su quel profilo e solo su quello». Sono i media che. Lo ha confermato anche Gioacchino Natoli nel libro di Massimo Franco: «È passata l'idea che il senatore abbia vinto, ma questo si deve esclusivamente al potere di suggestione dei media. La stampa e la tv non hanno fatto il proprio dovere di informare correttamente».  Nei fatti e nel tempo, però, quel bacio divenne un'arma nelle mani della difesa: e non certo per meriti giornalistici. Per trovare riscontri al racconto del bacio gli inquirenti dispiegarono grandi mezzi. Ben trenta carabinieri che avevano scortato Andreotti furono convocati e trattenuti in uno scantinato e interrogati per ore. Fu un incubo, anche perché la prospettiva era quella di aver coperto un politico mafioso che da anni proteggevano anche dalla mafia. Tanti dubbi cominciarono a sorgere lì. Il principale teste di riferimento di Balduccio Di Maggio, pure, smentì l'episodio e non solo quello. Tante altre smentite ne sarebbero seguite.  Andreotti nel 1999 fu assolto in primo grado. Quell'anno l'Espresso intervistò Caselli e gli chiese conto di quel tomo, «La vera storia d'Italia». Caselli prese le distanze. In quello stesso anno Andreotti raccontò che «La vera storia d'Italia» gli era stato regalato al momento di testimoniare: «Chiesi ai magistrati se fossero gli autori o gli ispiratori del titolo. Mi dissero di no, e convennero che non era un titolo appropriato». Ancora in quell'anno, il 1999, Giulio Andreotti compì ottant'anni. L'allora presidente del Senato, Nicola Mancino, gli disse: «Giulio, non ti bacio solo perché so che non ti piace».  

Dai blog