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Meloni, via la fiamma dal simbolo? Ma se a Borsellino e al marito della Segre andava bene...

Alberto Busacca
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La Meloni deve togliere la fiamma dal simbolo di Fdi. Così è deciso, l'udienza è tolta. La sinistra ha trovato la sua nuova battaglia, perfetta per il Ferragosto. Ed è partito un pressing asfissiante, come solo i compagni sanno fare. Giovedì, a buttarla lì, sono stati i parlamentari del Pd, subito seguiti da altri esponenti dell'area progressista. «Se la Meloni vuole consegnare il fascismo alla storia», ha detto Andrea Romano, «ha un'occasione d'oro per dimostrarlo: faccia togliere dal simbolo di Fratelli d'Italia la fiamma del Movimento sociale». Poi, tra gli altri, Laura Boldrini: «Meloni dice che abiura il fascismo? Ci spieghi perché nel simbolo di Fdi compare la fiamma tricolore, raffigurazione del regime che risorge dalla tomba del dittatore. Non basta dichiararsi non-fascisti». Ed Elly Schlein, che ha fatto pure un'ulteriore richiesta: «Se lasci la fiamma nel simbolo non bastano due minuti di video per smarcarsi dalle ambiguità. Non l'ho sentita dire che non ci saranno fascisti e nostalgici nelle sue liste».

 

 

PRIMA PAGINA
Ieri, come prevedibile, è stata la volta di Repubblica, che in prima pagina, sotto a una grande foto di Giorgia, ha titolato: «La vecchia fiamma». Spiegando: «La Meloni contestata per il simbolo neofascista che evocala tomba di Mussolini». Quindi l'uscita più "pesante", quella di Liliana Segre su Pagine Ebraiche: «Nella mia vita ho sentito di tutto e di più, le parole pertanto non mi colpiscono più di un tanto. A Giorgia Meloni dico questo: inizi dal togliere la fiamma dal logo del suo partito». La replica, a stretto giro, è arrivata da Ignazio La Russa: «Con tutto il dovuto rispetto per la signora senatrice Segre, che stimo, mi permetto di ricordare che la fiamma presente nel simbolo di Fdi non è in alcun modo assimilabile a qualsiasi simbolo del regime fascista. Spero, inoltre, di non essere irriguardoso nel ricordare che il marito della stessa senatrice Segre, che ho personalmente conosciuto e apprezzato, si candidò con Almirante sotto il simbolo della fiamma con la scritta Msi senza ovviamente rinunciare alla sua lontananza dal fascismo». Già, Alfredo Belli Paci, avvocato e marito della Segre, si candidò alla Camera nelle liste missine alle elezioni politiche del 3 e 4 giugno 1979.

Sesto in lista nella Circoscrizione Milano-Pavia. «Mio marito», ha spiegato lei in passato, «per un certo periodo aderì a una destra in cui c'era anche Almirante. Io ho molto sofferto e ci fu una grande crisi. Per fortuna lui rinunciò per amore a una eventuale carriera politica. E fummo insieme per altri 25 anni». Va detto che la fiamma che compare nel logo di Fdi non è esattamente quella del Movimento sociale. La base trapezoidale con la scritta Msi, infatti, non c'è più. Ma la vera domanda da porsi è: perché questo logo continua a fare così paura? In realtà non c'è motivo, visto che sotto la fiamma si sono candidati due vicepremier (Giuseppe Tatarella e Gianfranco Fini), un ministro degli Esteri (ancora Fini) e numerosi altri ministri (da Publio Fiori ad Altero Matteoli, da Francesco Storace a Mirko Tremaglia, noto per le battaglie in difesa degli italiani all'estero), senza contare governatori e sindaci. Insomma, si tratta di un simbolo che con le istituzioni ha una certa confidenza. Ma non c'è solo questo...

Dall'area missina, infatti, provengono diverse persone di cui il nostro Paese dev'essere orgoglioso. Al primo posto, tra questi, c'è naturalmente Paolo Borsellino, in gioventù esponente del Fuan, il movimento degli universitari di destra vicino al Msi. Il giudice non ha mai rinnegato il suo passato. Anzi. «Alcuni suoi veri amici», scriveva nel 1993 il collega Giuseppe Ayala, «erano gli stessi che frequentava negli anni dell'università. Penso a Giuseppe Tricoli, il professore di storia con il quale passò l'ultimo giorno della sua vita. O ad Alfio Lo Presti, un bravo ginecologo. A Guido Lo Porto, il deputato del Msi». E concludeva: «Queste amicizie forti di Paolo mi hanno fatto riflettere su un punto, sulla assurda criminalizzazione dei missini, fra i quali ci sono tantissime persone perbene. Perché non dirlo anziché attardarsi nel retaggio delle sciocche generalizzazioni?». Giriamo la domanda a Pd e Repubblica...

 

 

PAROLA DI SCIASCIA
Sempre restando in Sicilia, veniva dagli ambienti missini anche Beppe Alfano, giornalista ucciso dalla mafia nel 1993, così come l'avvocato Enzo Fragalà, già parlamentare di An, ammazzato dalle cosche nel 2010 perché cercava di convincere i suoi assistiti a collaborare con la giustizia. E va ricordato Beppe Niccolai, deputato del Msi dal 1968 al 1976 e autore di una relazione alla Commissione Parlamentare d'Inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia che fu definita «una cosa seria» da Leonardo Sciascia. Da Palermo a Bari. Dove ancora oggi un busto ricorda Araldo di Crollalanza, al quale si devono i lavori di riqualificazione del lungomare del capoluogo pugliese. Podestà della città dal 1926 al 1928, poi sottosegretario e ministro dei Lavori pubblici, seguì in particolare i soccorsi e la ricostruzione in occasione del terremoto del Vulture del 1930. Per poi, nel dopoguerra, fare per decenni il senatore del Msi. Sotto la fiamma, infine, sono passati anche parecchi sportivi (come il pugile Nino Benvenuti), cantanti (come Sergio Caputo) e giornalisti (come Almerigo Grilz, inviato di guerra morto in Mozambico, e i direttori del Secolo d'Italia Alberto Giovannini e Giano Accame). E vanno ricordati i tanti giovani militanti uccisi durante gli Annidi Piombo, da Sergio Ramelli a Mikis Mantakas, da Carlo Falvella a Paolo Di Nella, per citarne solo alcuni. Davvero per qualcuno è una storia di cui la destra dovrebbe vergognarsi?

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