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Giorgia Meloni, rassegnatevi: ecco perché piace alle donne

Eugenia Roccella
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A sinistra la misoginia impazza e fa impazzire anche le menti migliori: che ci sia una donna, Giorgia Meloni, a capo dello schieramento di centrodestra è intollerabile. Solo con il doloroso stupore che colpisce politici, giornalisti e opinionisti di solida fede progressista si possono spiegare certe reazioni scomposte. Assistere alla crisi dell'alleanza tra sinistra e femminismo, data per scontata per decenni, vederla scricchiolare così improvvisamente, fa male, tanto male da spingere il sobrio Letta ad utilizzare un lessico tipicamente misogino, e la brillante Natalia Aspesi, vestale di una correttezza politica deliziosamente leggera, a concludere che, poiché le donne tra loro si detestano (in realtà luogo comune maschilista), le donne detesteranno la Meloni.

 

 


A scatenare la Aspesi è stato l'appello di un gruppo di associazioni femministe che propone «un orizzonte politico comune a donne di tutti i partiti». Il testo non invita a votare FdI, ma basta evocare un orizzonte comune, aldilà della collocazione ideologica, e già tremori e stupori investono l'area progressista.
Ma come, il femminismo non è sempre stato "roba nostra"? Ma come, non è ovvio che siamo solo noi di sinistra a difendere i diritti delle donne?
Il legame tra femminismo e sinistra in realtà non è automatico, è stato costruito con fatica ed è durato poco, scontando un'avarizia costante da parte della politica, sempre solidamente in mani maschili. Negli anni Settanta, quando ero giovane leader del Movimento di Liberazione della Donna, ricordo isolamento, attacchi, diffidenza. Il Pci ci accusava di agitare temi sovrastrutturali, di occuparci di questioncelle borghesi, che alla classe operaia non interessavano; come se l'oppressione femminile non toccasse le lavoratrici o le donne dei ceti disagiati, ma fosse un capriccio da signore bene. Si dirà: va bene, ma questa è storia, poi, soprattutto con la battaglia sull'aborto, la sinistra ha decisamente affiancato le battaglie femministe. Eppure, come ha notato anche Luca Ricolfi, le leader più importanti, le donne che hanno raggiunto un vero potere politico, sono sempre state di destra, da Golda Meir a Margaret Thatcher ad Angela Merkel.

 

 


C'è, a sinistra più che a destra, un soffitto di vetro che impedisce alle donne di arrivare ai piani alti senza concessioni, senza quote, grazie al carisma personale che si impone. Forse perché a sinistra il femminismo è confuso con l'emancipazionismo, cioè con l'idea che le donne devono essere uguali agli uomini, che l'obiettivo più alto per una donna è lavorare, vivere, agire come un uomo. Il femminismo invece partiva dalla valorizzazione della differenza, dalla potenza simbolica e vitale del materno, dalla capacità delle donne, da sempre, di fare la storia umana, quella della quotidianità, imperniata sulla cura delle relazioni. Oggi, poi, la vicinanza della sinistra al femminismo è fiaccata dalle nuove rivendicazioni del mondo Lgbt. Come è scritto nel documento delle femministe che tanto ha irritato la Aspesi, «l'ideologia misogina e mercantile dell'identità di genere è la nuova faccia glitterata del patriarcato che non vuole morire, e che per sopravvivere ha bisogno di cancellare le donne perfino nel linguaggio». La sinistra che adotta la schwa, che propone la legge Zan, che non condanna l'utero in affitto, è sempre più lontana dalle donne. A destra, invece, nei confronti dell'ideologia gender il rifiuto è netto. E soprattutto a destra c'è una leader che si è fatta largo da sola, con le proprie forze, e che non somiglia alla Thatcher o alla Merkel, non ha assunto una postura maschile, ma è facilmente riconoscibile dalle donne come donna. La Aspesi si deve rassegnare: non sarà facile detestarla. 

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