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Luigi Di Maio, il reddito grillino e quelli pagati per non lavorare

Iuri Maria Prado
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È difficile negare che il reddito di cittadinanza sia stato introdotto per affermare un criterio sociale abbastanza diverso rispetto a quelli generalmente spacciati. Pressappoco, nella rappresentazione comune si trattava di aiutare i derelitti o, secondo la dicitura adoperata dal ministro dei Gilet Gialli, Luigi Di Maio, quel rimedio doveva servire ad abolire la povertà.

Ma è vero semmai che quella provvigione era devoluta sulla base di un presupposto anche più detestabile a paragone di quelle retoriche poveriste, e cioè per dare dignità legislativa (e stipendio) al diritto di non lavorare.

L'idea che qualcuno abbia diritto al sussidio perché ha acquisito il diritto di non far niente non è affatto estranea alla sensibilità di molti, e non a caso si rischia la sollevazione se si ipotizza che il percipiente, a corrispettivo di quella dazione, debba almeno far finta di ripagare in qualche modo ciò che riceve. Eppure le strade cittadine da pulire ci sono, quelle poderali di cui fare manutenzione anche. Dunque? Dunque, molto semplicemente bisognerebbe fare che il reddito di cittadinanza te lo diamo e tu, cortesemente, vai a fare una o l'altra di queste cose, o una delle mille di cui abbisogna la società che ti mantiene. O no? No, perché l'idea è che il reddito di cittadinanza debba costituire una specie di indennità, non una remunerazione: l'indennità per il fatto che uno, guarda te l'ingiustizia, se non lavora non è pagato. 

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