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Matteo Renzi, ecco il vero piano per "infilarsi" in maggioranza

Fausto Carioti
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Matteo Renzi crede che da qui al 9 giugno del 2024, giorno del voto delle elezioni europee, succederà poco o niente. È anche convinto che da quel momento, però, molte cose cambieranno nella maggioranza e nel governo. Perciò ha già iniziato a fare le sue mosse. La presentazione della proposta di legge costituzionale per introdurre l’elezione diretta del presidente del consiglio è una di queste, anche se l’idea di annunciarla con una conferenza stampa, come ha fatto ieri, gli è venuta il giorno prima. Motivi tattici, ma non solo.

Si rischiava di parlare per giorni della cena al Twiga che ha visto i suoi Francesco Bonifazi e Maria Elena Boschi seduti al tavolo assieme alla ministra Daniela Santanchè: un convivio lecito, ma difficile da conciliare con l’immagine di un partito d’opposizione determinato ad incalzare il governo. Così il capo di Italia viva ha voluto mettere carne nuova sul fuoco, affinché si parlasse di loro per altre ragioni e per mostrare che non intende essere la ruota di scorta della maggioranza: l’avanguardia dello schieramento riformista, semmai.

 

 


I RITARDI DEL GOVERNO
Il premierato, o progetto del «sindaco d’Italia», come lo chiama lui, è perfetto per questo scopo. È lo stesso disegno al quale sta lavorando da mesi il governo, che ha messo da parte l’idea iniziale di puntare alla «elezione diretta del presidente della repubblica» promessa nel programma elettorale. Il ministro per le Riforme istituzionali, Maria Elisabetta Casellati, contava di far arrivare il disegno di legge in consiglio dei ministri prima della pausa estiva, ma non avverrà: da qui alla sosta ferragostana sono previsti due consigli dei ministri, uno domani e l’altro lunedì, e in nessuno dei due la grande riforma delle istituzioni figura tra gli argomenti all’ordine del giorno.

Inoltre la revisione della Costituzione con l’elezione del presidente del consiglio è legata al varo dell’autonomia differenziata, che sta alla Lega come il premierato sta a Fdi, e proprio riguardo all’autonomia il governatore del Veneto, Luca Zaia, ha detto che non farla nel 2024 significherebbe «venire meno ad un patto. E quando il patto si rompe non si sa mai da che parte vanno i cocci». L’esito della partita delle riforme, insomma, non è così scontato, tanto che appaiono i primi segni di nervosismo.

 

 

La strategia dell’ex sindaco di Firenze consiste proprio nell’infilarsi in questi punti di frizione del centrodestra nel tempo che ci separa dal 9 giugno, quando confida che si possa aprire uno scenario tutto nuovo, con un esecutivo e una maggioranza finalmente indeboliti. Un po’ dal logorio che usura chiunque stia al governo da oltre un anno, ma soprattutto dall’esito del voto per l’elezione del parlamento Ue. «Se la Meloni fa il pieno anche lì», è il ragionamento di Renzi ai suoi, «lo fa a spese degli alleati».
Oggi, rispetto alle elezioni del 25 settembre, Fdi ha guadagnato tre punti e sfiora il 29% delle intenzioni di voto, la Lega è stabile attorno al 9% e Forza Italia sembra iniziare a patire l’addio di Silvio Berlusconi. Nei prossimi dieci mesi il partito della premier potrebbe rosicchiare altri elettori, e in quel caso Renzi è convinto che Matteo Salvini ed Antonio Tajani avranno seri problemi a tenere a bada i loro partiti, e che la maggioranza diventerà un composto instabile nel quale la concorrenza si farà feroce.  La situazione perfetta per uno come lui, insomma. Che da un lato non ha mai smesso di credere di poter diventare l’aggregatore di uno schieramento di centro capace di rimpiazzare Forza Italia nel cuore degli elettori moderati. E dall’altro, con i suoi parlamentari (oggi sei senatori e dieci deputati, a giugno chissà), in caso di defezioni nel centrodestra potrebbe diventare decisivo perla tenuta della maggioranza e costringere la Meloni a scendere a patti.

 


LA DISTANZA DA CALENDA
Vasto programma, certo. Ma il Renzi di oggi è consapevole di guidare un partito del 3% e anziché scommettere su una forza che non ha, punta tutto sulle debolezze degli avversari. La riuscita del suo disegno dipenderà dal risultato del voto e dalla saldezza di nervi dei leader e dei parlamentari del centrodestra. Intanto, lui si dimostra più presidenzialista della Meloni e più nordiano di Carlo Nordio, e non ha problemi a difendere la commissione d’inchiesta sul Covid voluta dalla maggioranza né a complimentarsi con la premier per aver convinto il presidente egiziano Al-Sisi a concedere la grazia a Patrick Zaki. Da Carlo Calenda ormai lo separa un abisso (anche ieri, sul premierato, tra le loro squadre sono volati gli stracci), ma se la soglia da superare per entrare nel parlamento di Strasburgo resterà al 4%, più di quanto valgano oggi i loro partiti da soli, il modo per presentarsi insieme lo troveranno. Per poi, il giorno dopo, seguire ognuno la propria strada, e quella di Renzi porta assai più a destra di quella di Calenda.

 

 

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