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Giorgia Meloni, magistrati e Albania: lo sfogo, dura andare avanti così

Fausto Carioti
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Chi decide quali sono i Paesi extracomunitari «sicuri» riguardo al rispetto dei diritti dell’uomo, gli Stati i cui cittadini possono essere rimpatriati? Il potere giudiziario o quello politico? Su questo si è aperto il nuovo scontro tra magistratura e governo. Più duro dei precedenti, perché dalla risposta dipendono non solo l’esito dell’“operazione Albania”, ma anche il contrasto all’immigrazione illegale in Italia e la tenuta dei confini nazionali.

Ad aprire il conflitto sono stati la sentenza della Corte di giustizia della Ue del 4 ottobre ed il modo in cui è stata usata prima dal tribunale di Palermo (che ha mandato a piede libero cinque tunisini sbarcati illegalmente in Italia) e ieri dal tribunale di Roma, che non ha convalidato nessuno dei trattenimenti chiesti per i dodici migranti egiziani e bengalesi portati nei centri italiani in territorio albanese. Una decisione, quest’ultima, che Giorgia Meloni bolla come «pregiudiziale». «È molto difficile», attacca la premier, «lavorare e cercare di dare risposte a questa nazione quando si ha anche l’opposizione di parte delle istituzioni che dovrebbero aiutare a dare risposte».

 

Ovviamente per Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm, la questione è puramente tecnico-giuridica, l’orientamento politico dei magistrati non c’entra nulla: «Sono giudici che applicano le norme volute dal nostro ordinamento e dall’ordinamento europeo di cui siamo parte integrante», e quest’ultimo «prevale». Il giudice di Roma, secondo lui, poteva solo prendere atto che «l’ordinamento sovranazionale considera l’Egitto e il Bangladesh tra i Paesi non sicuri».

Lo scontro è appena agli inizi ed è destinato a farsi più duro. Oggi e domani, a palazzo Chigi, si lavorerà sulla risposta da dare ai magistrati. «Ho convocato un consiglio dei ministri per lunedì per risolvere questo problema», ha annunciato Meloni parlando da Beirut. In quella riunione saranno approvate nuove norme, «perché penso non spetti alla magistratura dire quali sono i Paesi sicuri, ma al governo». Il quale, dunque, «dovrà chiarirlo meglio».

 

Il meccanismo normativo con cui rispondere alle toghe non è stato ancora deciso. Tra le ipotesi c’è quella di trasformare il provvedimento nel quale il governo elenca i «Paesi sicuri», che sino ad oggi è stato un semplice decreto ministeriale scritto dal ministero degli Esteri di concerto con quelli dell’Interno e della Giustizia, dunque una norma di secondo livello, in un decreto legge, norma di primo livello emanata dall’intero esecutivo e soggetta solo alla Costituzione. Qualunque conflitto sul suo contenuto, in questo caso, finirebbe davanti alla Corte Costituzionale. È una delle strade possibili, nessuna delle quali appare comunque semplice.

Intanto Matteo Piantedosi assicura che il Viminale darà «battaglia all’interno dei meccanismi giudiziari», a colpi di ricorsi: «Arriveremo fino alla Cassazione». Il ministro è convinto che «dal 2026 quello che l’Italia sta realizzando con il progetto in Albania diventerà diritto europeo». Nel frattempo, però, il conflitto tra magistratura e governo arriva a livelli che Sergio Mattarella, a quanto si apprende, non avrebbe mai voluto che fossero raggiunti.

Ma l’urto è anche politico, tra maggioranza e opposizione. Lo rimarca la stessa Meloni, quando si dice «colpita» dal fatto «che la decisione dei giudici è stata anticipata» giovedì «da alcuni esponenti del Pd». In ambienti di governo, a microfoni spenti, i commenti sono molto più duri. Si sostiene che «una parte politicizzata della magistratura vuole abolire i confini e sancire il diritto a migrare a proprio piacimento». E si giudica «del tutto strumentale» il richiamo delle toghe italiane a quella sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, la quale non produrrebbe gli effetti che loro ne hanno ricavato. Non passa inosservato che tra chi ha firmato quei provvedimenti ci siano magistrati come Silvia Albano, presidente di Magistratura democratica, i quali hanno più volte criticato l’intesa con l’Albania, in convegni, editoriali e interviste.

Le stesse ordinanze di ieri, spiegano nell’esecutivo, confermano che è stata preparata una trappola. Quei provvedimenti di non convalida lunghi sei pagine, teoricamente scritti in meno di due ore, sono corposi e dettagliatissimi sulle questioni di diritto italiano ed internazionale, con numerosi riferimenti alla sentenza della Corte di giustizia Ue, e allo stesso tempo non entrano nei casi specifici degli immigrati: si limitano a stabilire che non esistono Stati sicuri di provenienza e quindi i dodici non possono essere trattenuti in Albania. La convinzione, insomma, è che «un provvedimento così lungo e articolato è stato scritto prima, non dopo l’udienza». E che l’Albania sia solo il dito che indica la Luna, perché l’obiettivo di quei giudici è scardinare l’intera politica italiana dell’immigrazione e rendere illegittimo ogni trattenimento nei Centri di permanenza per i rimpatri, anche quelli in territorio italiano. «Con i criteri di certi magistrati un immigrato non potrebbe essere rimpatriato nemmeno negli Usa, visto che in alcuni Stati, lì, c’è la pena di morte...».

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