Quell'assurda sbronza maoista che ai progressisti non passa mai

Dal '68 ad oggi, dai brigatisti rossi agli intellettuali da saolotto: così il regime comunista cinese ha sedotto la nostra sinistra
di Fausto Cariotidomenica 4 maggio 2025
Quell'assurda sbronza maoista che ai progressisti non passa mai
7' di lettura

Non con il rum cubano di Fidel Castro e Che Guevara, e nemmeno con la vodka di Stalin. La sbronza più grossa della storia moderna l’Italia e la Francia se la sono fatta col tè cinese. Iniziarono oltre settant’anni fa e ancora non l’hanno smaltita. Romano Prodi che invoca «relazioni eque e intense tra Europa e Cina», Goffredo Bettini che dalle spiagge thailandesi spiega che la Cina deve diventare «un alleato strategico della nostra economia» e Giuseppe Conte che tramite gli accordi della Via della Seta porta l’Italia nell’orbita di Pechino sono solo gli ultimi di un esercito di mandarini, ognuno a modo proprio fedele all’imperatore.

Il primo ottobre del 1949, quattordici anni dopo la Lunga Marcia (con le maiuscole, come la Resistenza e la Liberazione), Mao Zedong può proclamare la nascita della repubblica popolare cinese. L’infatuazione europea è immediata, le basi su cui innalzare la mitologia erano state create anni prima dai reportage e dai libri dell’americano Edgar Snow (Stella Rossa sulla Cina è del 1937) e dai romanzi del francese André Malraux (in particolare La condizione umana, 1933), grondanti di simpatia per i rivoluzionari cinesi.

Ci casca pure un liberale come Piero Calamandrei, fondatore del Partito d’Azione e membro della Costituente. «Non può non avere il consenso della gran maggioranza del popolo», scrive di ritorno da un viaggio fatto nel 1955 su invito del regime di Pechino, «un governo che ha assicurato pace e indipendenza al Paese, terra ai contadini, sicurezza di lavoro e di pane agli operai, dignità civile e familiare alle donne». Se non il paradiso in Terra, qualcosa che gli assomiglia parecchio.

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LUNGA MARCIA
Tra i tanti nomi dell’industria culturale italiana che partecipano a quel viaggio (Carlo Cassola, Franco Fortini, Cesare Musatti, Antonello Trombadori...) c’è Norberto Bobbio, che nella sua Autobiografia ricorderà di Mao: «Lo guardavamo con ammirazione. La “Lunga marcia” è stata uno degli episodi più stupefacenti e più entusiasmanti dell’epoca contemporanea». Certo, la sinistra francese resta su un altro livello. Anche Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre, nel 1955, viaggiano in Cina su invito del governo cinese, e mai investimento di Pechino sull’opinione pubblica occidentale fu più redditizio. Due anni dopo, de Beauvoir pubblica per l’editore Gallimard La lunga marcia. Lì spiega che «il potere che Mao Tse-tung esercita non è più dittatoriale di quello che ha detenuto, per esempio, un Roosevelt». Una fotografia del 1970 la ritrae assieme al suo compagno Sartre mentre distribuiscono nei boulevards di Parigi il giornale maoista La cause du peuple, la cui diffusione era vietata.

L’Italia è indietro, ma a colmare la distanza lavorano in tanti. Goffredo Parise, nel suo Cara Cina (1966), scrive che lì, per la prima volta, si è creata l’identificazione tra il popolo e la sua classe dirigente: «I cinesi non sentono e non soffrono la mancanza di libertà e di espressione individuale», il loro è «un paese di filosofi», abitato da persone che «si salutano col cuore». Mica come l’Occidente, «dove si può comprare e vendere quello che si vuole, soprattutto l’amore».

L’agiografia fa un salto di qualità con la Rivoluzione Culturale. Nel 1966, e fino alla sua morte dieci anni dopo, il Grande Timoniere si dedica a “ripulire” la società cinese da elementi borghesi, capitalisti e «revisionisti». Lo aiutano milioni di giovani studenti spinti al fanatismo e trasformati in Guardie rosse: denunciano genitori, professori, intellettuali, funzionari, artisti, che sono umiliati in pubblico, picchiati, incarcerati o uccisi, mentre templi, opere d’arte e libri vengono distrutti. Eppure nel 1968, dopo essere stato lì con Dacia Maraini, Alberto Moravia racconta agli italiani che lo scopo della Rivoluzione Culturale è «far giungere l’uomo completo del mondo contadino alla libertà tecnologica senza pagare il pedaggio piccolo-borghese che in questo momento stanno pagando l’Urss e tutti gli altri Stati comunisti del blocco sovietico».

IL SESSANTOTTO
Il desiderio d’imitare la Cina maoista diviene tutt’uno con l’ideale sessantottino: li uniscono un’utopia comunista che non può più essere quella sovietica, grigia e burocratizzata, e il capitalismo come nemico comune. «Marx-Mao-Marcuse» è la santa trinità del Sessantotto. «In analogia con Che Guevara, ma a differenza di quest’ultimo ai vertici di una grande potenza che aveva in modo decisivo contribuito a fondare, Mao era divenuto l’icona rivoluzionaria in grado di ispirare lotte per l’indipendenza nazionale in Asia, Africa e Sud America», scrivono Mario Tesini e Lorenzo Zambernardi nel documentatissimo Quel che resta di Mao. Nel Movimento studentesco, racconta Roberto Niccolai nel libro Quando la Cina era vicina, c’era «la certezza che la Cina delle Guardie rosse, anche loro giovani studenti, appoggiasse i rivoluzionari europei e nordamericani».

Mao è il Guevara che ce l’ha fatta. E diventa un’icona pop come il rivoluzionario argentino immortalato da Alberto Korda. I Beatles lo citano nell’album bianco: la canzone è Revolution, l’anno è il 1968. Due anni dopo, i Rolling Stones interrompono il concerto a Versailles per far salire sul palco il maoista francese Serge July. Chiude il cerchio Andy Warhol, che nel 1972 trasforma Mao in una serigrafia: come Marilyn, come Elvis e come i barattoli di zuppa Campbell’s. Il Libretto rosso di Mao è il nuovo vangelo, i suoi versetti entrano nel linguaggio politico per non uscirne più.

Frasi come «La rivoluzione non è un pranzo di gala», «Una scintilla può dar fuoco a tutta la prateria», «Servire il popolo», «Che cento fiori sboccino e cento scuole di pensiero competano», «Il potere politico nasce dalla canna del fucile» infarciscono i discorsi di milioni di giovani occidentali. Chi vuole impugnare le armi trova in Mao la giustificazione e l’ispirazione: i futuri fondatori delle Brigate rosse, Alberto Franceschini e Renato Curcio, si conoscono a Trento, mentre Curcio distribuisce copie del Libretto rosso. Lo slogan «Mordi e fuggi», scriverà Franceschini in Mara, Renato e io, «lo riprendemmo da Mao.

Aveva scritto che il principio della tattica partigiana è “mordere e fuggire subito”. E a noi piacque anche perché ricordava la giungla ed eravamo convinti che nel nemico evocasse fantasmi di animali feroci». Chi accusa il Pci di essersi imborghesito come il Pcus può citare il tazebao in cui Mao aveva proclamato che bisognava «bombardare il quartier generale», la sede centrale del partito. I maoisti del Pci rispondono col loro piccolo timoniere: «Ingrao, Ingrao, sei il nostro Mao».

DIABOLIK E FO
Il mondo della cultura italiana italiana vive immerso nel mito di una Cina idealizzata. Nelle stanze della casa editrice Einaudi, racconterà il suo dirigente Ernesto Ferrero (I migliori anni della nostra vita), si leggono «con ammirazione le cronache epiche che Edgar Snow aveva dedicato alla Lunga Marcia di Mao e alla Rivoluzione cinese». Dario Fo garantisce che «in Cina il mangiare, il bere, il vestirsi, i principi morali sono tutt’uno. C’è una concezione profonda della vita che determina tutto quanto. C’è l’uomo nuovo perché c’è una filosofia nuova». E il dissenso politico – assicura il futuro premio Nobel – ha «uno spazio grandissimo.

Ognuno dice veramente quello che pensa». Ci casca persino Diabolik: nel volume del novembre 1974, Marchio di Fuoco, il ladro delle sorelle Giussani, tornato da un Paese che in tutto e per tutto somiglia alla Cina, spiega a Eva Kant che «quel popolo vive nell’uguaglianza! Tutto appartiene a tutti! Là io non avrei ragione di esistere!». È in questo brodo di coltura che nel 1968 nasce l’Unione dei comunisti italiani marxisti-leninisti di Aldo Brandirali, meglio conosciuta col nome del suo giornale, maoista sin dal nome: Servire il popolo. Sono le Guardie rosse de noantri, che vogliono «la Cina qui» e annullano la vita privata nell’ideale collettivo: hanno l’asilo maoista, praticano il matrimonio comunista, cacciano chiunque sia sospettato di deviazionismo, impongono ai militanti di consegnare al partito tutti gli oggetti “di lusso”, come tostapane, phon per capelli, giradischi e libri di autori «borghesi». Dal 1973, scrive Niccolai citando documenti di Servire il popolo, dettero anche «indicazioni in materia sessuale, infatti “era proibita la masturbazione, il coito anale e il coito orale (se non nella fase iniziale del rapporto)”, perché queste pratiche erano simboli di una mentalità piccolo-borghese; “l’orgasmo doveva essere unico e simultaneo”». Passano lì Michele Santoro, i fratelli Pennacchi, Marco Bellocchio, Barbara Pollastrini, Linda Lanzillotta, Nicola Latorre, Edoardo Sanguineti, Pierangelo Bertoli. Una “Chiesa rossa” che dura pochi anni e si discioglie nel 1977.
Mao muore il 9 settembre del 1976.

«Ci ha insegnato che il comunismo è il radicale rovesciamento della storia fondata sull’egoismo e sullo sfruttamento. Per questo dalla Cina “arretrata” è partito il solo suggerimento adeguato per affrontare la crisi di civiltà dell’“avanzato” Occidente», scrive il Manifesto nel necrologio firmato da Rossana Rossanda. In Urss, dopo Stalin, c’era stata la de-stalinizzazione, ma Deng Xiaoping non è Nikita Kruscev e sceglie di difendere gli errori e gli orrori del suo predecessore: l’operato di Mao, spiega, era «settanta per cento corretto e trenta per cento sbagliato».

PIAZZA TIENANMEN
Nel giugno del 1989, in piazza Tienanmen, l’esercito cinese massacra migliaia di manifestanti (il numero reale non sarà mai noto). Due anni dopo, in Gran Bretagna, esce il libro Cigni Selvatici, della scrittrice Jung Chang, proibito in Cina. Il culto della personalità di Mao, gli incubi del “Grande Balzo in avanti” del 1958 (la trasformazione forzata della Cina da Paese agricolo a potenza industriale: carestie, milioni di morti, cannibalismo) e della Rivoluzione Culturale sono raccontati attraverso tre generazioni di donne.

Nella cultura di massa europea, però, cambia poco o nulla. Cigni Selvatici non ha l’impatto di Arcipelago Gulag, pochissimi ancora oggi sanno cosa siano i laogai, tra i compagni non c’è nessuna “riflessione critica” sul maoismo. Deng, almeno, aveva dato torto a Mao al trenta per cento; la sinistra italiana non farà nemmeno questo. Nella primavera del 2017, la mostra sulla propaganda di Pechino organizzata dal Comune di Virginia Raggi nel Museo di Roma in Trastevere presenta i manifesti del regime di Mao con «schede “esplicative” che sembravano scritte da qualche funzionario della Repubblica Popolare», scrive Giovanni Belardelli in Quel che resta di Mao.

La fascinazione della sinistra italiana per il regime cinese non se n’è mai andata. È rimasta lì, anche se oggi nessuno può dire di non sapere nulla della repressione, di non aver visto il sangue. E quando Donald Trump mette l’Italia e l’Europa dinanzi all’alternativa, o con gli Stati Uniti o con la Cina, e da Pechino promettono l’abbraccio di una nuova Via della Seta, può mostrarsi con l’orgoglio di un tempo. Dietro all’attrazione per Xi Jinping, come dietro all’esaltazione per Mao allora, c’è sempre l’ostilità per l’Occidente e ciò che resta dei suoi valori.