Dario Franceschini, 7,2 miliardi in otto anni al cinema

di Pietro Senaldigiovedì 22 maggio 2025
Dario Franceschini, 7,2 miliardi in otto anni al cinema
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Sette miliardi e duecentocinquantacinque milioni più spiccioli. Questo è quanto il governo ha dato a fondo perso al cinema dal 2017, anno di grazia della pellicola grazie alla riforma dell’allora ministro alla Cultura, Dario Franceschini. È lui il messia che le star rimpiangono, l’uomo che ha moltiplicato gli incassi. Attenzione, non parliamo di botteghino, visto che dall’anno prima dell’iniziativa del dirigente dem a oggi le presenze in sala sono crollate dai 114 milioni del 2016 ai 74 milioni e mezzo del 2024, con conseguenti meno 170 milioni di incasso, da 695 a 525, ma di denaro pubblico calato a pioggia per tentare di rivitalizzare il settore.
Se infatti nove anni fa i soldi dello Stato dedicati al settore erano stati all’incirca 400 milioni, l’anno scorso sono più che raddoppiati, fino a 840, e per quest’anno ne sono già stati previsti 696, esattamente come i dodici mesi precedenti, appesantiti da uno splafonamento che è una consuetudine e non un’eccezione. In mezzo, una costante crescita - 464, 514 e 644 milioni rispettivamente nel 2018, 2019 e 2020 - fino all’impennata post Covid: 980 milioni nel 2021, su fino a oltre un miliardo e mezzo nel 2022, e poi ancora oltre un miliardo e cento milioni nel 2023, per arrivare poi alla piccola correzione del 2024, quella che ha gettato nel panico i nostri vip delle sale.

Complice di questa escalation, il famigerato tax credit, lo sconto fiscale del 40% che il governo prevede per le produzioni cinematografiche, che ha fatto schizzare i costi per girare un film così come il super bonus grillino aveva pompato a mille le spese per ristrutturare gli immobili, stravolgendo il mercato, prima rivitalizzato e poi mandato fuori asse da quello che nei fatti si è rivelato un incentivo a gonfiare le spese e buttare denaro mentre si lavora, anziché ad amministrare oculatamente. Tanto, copre lo Stato, paga Pantalone. I dati dicono che questo sforzo oneroso non ha risolto la crisi del cinema ma è servito semplicemente a dopare un cavallo sfinito, che ora non può più andare avanti senza continuare ad aumentare le dosi. Ulteriori iniezioni di denaro pubblico illusoriamente salvifiche, non altro vorrebbero infatti i vari Elio Germano, Gabriele Muccino, Nanni Moretti, Pupi Avati e tutti coloro che stanno protestando dall’alto dei loro cachet: 300mila euro all’attore rosso per interpretare Enrico Berlinguer nella Grande ambizione, due milioni e duecentomila euro di onorario al regista pariolino per la doppia serie A casa tutti bene, oltre cinque milioni al tormentato ex autarchico, otto milioni in sei anni di finanziamento alle opere dell’amico del Bar Margherita.

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L’accusa al governo è di voler tagliare i viveri all’arte, con l’obiettivo di censurarla affamandola. Per dare vigore alla protesta, le star la buttano in politica: non volete finanziarci perché siamo di sinistra. La realtà è ben diversa. Anche perché, con 7,2 miliardi in otto anni, ci vuole una certa dose di faccia tosta a piangere miseria. Al netto dei finanziamenti e degli aiuti ai vari Festival, alle sale cinematografiche e agli altri operatori del settore, il pozzo dell’orrore sta nel miliardo e 167 milioni che, dal 2018 al 2024, le case di produzione hanno ottenuto dallo Stato sotto forma di tax credit (oltre il miliardo), contributi selettivi (più di 125 milioni) e reinvestimenti automatici (circa 35 milioni). In tutto sono state sovvenzionate 1.030 opere. Con un giallo: tutto il carrozzone è costato tre miliardi e mezzo, visto che lo stato ce ne ha messo 1,1 e gli incassi sono stati di mezzo miliardo, è possibile che produttori e registi ci abbiano smenato due miliardi? Certo, un film non incassa solo in sala. Prende soldi dalle piattaforme su cui gira, dalle tv che lo trasmettono, da eventuali premi e sponsorizzazioni. Ma così fino a due miliardi non si arriva... E infatti al Ministero risulta che, causa splafonamenti delle spese programmate, gli stanziamenti per le produzioni nazionali nel periodo esaminato, grazie al perverso meccanismo del tax credit, arrivano a 3,5 miliardi (e toccano i 4,2 se si calcola le produzioni internazionali che riusciamo ad attrarre, che però sì, quelle, sono un investimento di buona resa).

Ecco allora che trova fondamento il sospetto che sta alla base della riforma delle regole introdotte da Franceschini che questo governo ha voluto modificare: non è che in realtà, in alcuni casi, i costi sono gonfiati per ottenere uno sconto fiscale su spese che non si sono mai affrontate e che quindi il tutto si trasforma in un finanziamento indebito alle case di produzione meno oneste? È per stroncare questa prassi, che le Procure potrebbero anche chiamare truffa ai danni dello Stato, che il sottosegretario alla Cultura con delega al Cinema, Lucia Borgonzoni, sta attuando la riforma della riforma voluta dal ministero. Le nuove regole pensate dalla esponente leghista sono all’insegna della trasparenza. Segnalazione di nome, cognome e codice fiscale di chi lavora nelle produzioni e nei service, onde evitare distrazioni di denaro. Congruità dei soldi richiesti per prestazione, dopo che negli anni scorsi si è registrata un’impennata delle diarie delle maestranze, che hanno per esempio portato i parrucchieri in alcune produzioni a guadagnare anche quattromila euro a settimana, quando prima il loro cachet era di mille. Divieto di appalti a cascata, per evitare il fenomeno delle società che ottengono soldi per produrre in Italia ma poi subappaltano all’estero per risparmiare, trasportando lavoro e rendite fuori dall’Italia ma mettendolo in conto alle casse pubbliche. Fatture con nome obbligatorio dell’opera, per stroncare spericolati passaggi di denaro. Tutte norme che non dovrebbero spaventare chi agisce nella legalità e quindi non si comprende perché destino tanto allarme presso i nostri vip.