Oltre 16mila. Anzi no, quasi 49mila. O più di 72mila. Macché, ben sopra le 85mila. Mettiamo tutto assieme che fa circa 200mila: spannometriche, però vabbè, il conto finale, firma per firma, arriverà tra qualche giorno, l’importante, per ora, è metterle in fila lì, sui social, su internet, una dietro all’altra, le sottoscrizioni a favore della “candidatura” di Francesca Albanese al premio Nobel per la Pace. E allora scatta la corsa, convulsa: anche-io, mee-too, fate largo, penna in mano. Attrici, attori, scrittrici, scrittori, vignettisti, politici, economisti, antropologi, giornalisti, attivisti. Il tempo di un secondo (santa era digitale) e la coscienza si cheta perché l’appello è chiaro (lo han rilanciato anche le opposizioni): se c’è un pericolo, qui, è «l’ennesimo attacco al multilateralismo di Trump e anche la conferma del suo sostegno al piano criminale di Netanyahu in Palestina che Albanese (semmai, ndr) ha sempre denunciato con forza», cit. Elly Schlein.
È la moda del momento, collezione estate 2025. Sottoscrivere la petizione a favore della relatrice speciale. O meglio, unirsi al coro delle istanze indignate, al plurale. Ce n’è mica solo una. Ce ne sono almeno cinque (l’ultima, tra l’altro, targata Avs: ma la raccontiamo nel pezzo qui sotto). Però, nella frenesia, non è che magari ti scappa di andare a vedere bene in calce a cosa stai mettendo il tuo nome? La prima (lo rivendica lui stesso), quella che al momento della redazione di questo articolo aveva macinato il numero di consensi maggiori, l’ha lanciata, qualche dì fa, Giuseppe Salamone.
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“Chiediamo la nomina di Francesca Albanese al premio Nobel per la Pace” (il titolo è chiarissimo): si trova sul portale change.org e fa parte di un quartetto composto assieme ad altre tre raccolte simili (una partita pure dalla Gran Bretagna) presenti sullo stesso sito. È rivolta al presidente della repubblica, al governo, al parlamento e dice senza fronzoli che «riconoscere l’impegno (di Albanese, ndr) nei territori palestinesi occupati rappresenta un passo fondamentale per contrastare condotte infamanti e sostenere i valori umanitari». Sorvolando sul fatto che Gaza, prima del massacro di Hamas del 7 ottobre del 2023, non era occupata dal 2005, cioè da quando Sharon ha attuato il Piano di disimpegno unilaterale ebraico nella Striscia, a noi di Libero è venuto un dubbio.
Ma Salamone (liberissimo di chiamare a raccolta chi vuole, con le modalità che vuole e con le motivazioni che vuole: per carità), di preciso, chi è? Il Fatto quotidiano lo definisce un “content creator”, è un blogger, la sua bio breve è breve sul serio («Senza padroni!», recita, col punto esclamativo), è pure giovane, ha su per giù 35 anni e ha un profilo Facebook seguito da 65mila persone. Ecco, appunto. Il profilo Facebook. È che è uno attivo, Salamone. Uno che posta ogni due o tre ore, diversi commenti al giorno, foto, video, pareri.
Per esempio: «La Nato è un’organizzazione a delinquere e si comporta come i mafiosi. Non lo dico io, lo dicono le loro parole e le loro azioni. A partire da quelle che mettono in atto contro Paesi come la Russia per finire con quelle che attuano all’interno dell’organizzazione stessa». Oppure: «Mettere dei manifesti contro la guerra, il riarmo, la russofobia e il dissenso nei confronti del presidente della repubblica che paragona la Russia al Terzo Reich è diventato un reato da denunciare: è allucinante questa vicenda» (segue il famoso cartellone di qualche mese fa “La Russia non è il nostro nemico”). O ancora: «La Russia chiede che si inizi a parlare della non adesione dell’Ucraina, loro (l’Unione europea e la Nato, ndr) invece la invitano ai loro vertici. Però poi è sempre colpa di Mosca...».
Ce l’ha con tanti, Salamone. Ce l’ha col premier israeliano Netanyahu (e questo non stupisce vista la petizione che ha creato e che rivendica), ma ce l’ha anche con la presidente Meloni, con Trump, addirittura col capo dello Stato Sergio Mattarella (reo, per restare in tema, di aver «ricevuto Zelensky in pompa magna (...) non in mio nome») e ce l’ha, soprattutto, con quelle opposizioni che oggi stanno facendo a gara per sottoscrivere la sua iniziativa e stendere il tappeto rosso da qui a Stoccolma alla Francesca made by Onu.
Il 9 giugno: «Inutile girarci attorno, la situazioni dalle parti di Elly Schlein è catastrofica». Lo stesso dì (la disfatta c’era, era quella dei referendum): «Cara Elly che continui a rasentare il ridicolo (...) gli italiani chiedono un cambiamento ma quel cambiamento non passa attraverso il Pd». Il 26 maggio: «Elly Schelin vi dovreste vergognare perché la vostra ipocrisia è qualcosa di insopportabile, di subdolo, di intollerante». Immagini di Ursula von der Leyen coi baffetti alla Hitler, una clip col ritornello “death to the Idf” (che per uno che sponsorizza il Nobel per Pace, diciamo, non è esattamente il massimo della coerenza), slogan come «il sionismo è il cancro del mondo».
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Potremmo andare avanti, ma l’andazzo s’è capito. È la domanda, a questo punto, che resta in sospeso: caro “popolo di sinistra” che più o meno in buonafede hai, stai, contribuirai alla vagonata di firme da portare all’Accademia di Svezia in favore della Albanese, va tutto bene? D’accordo che aderire a una singola iniziativa non significa sposare in toto chi ne ha avuto l’idea, ma non hai niente da aggiungere? E soprattutto, la base che supporta, che applaude, che incoraggia Albanese è questa qua? Pro-Pal (ed è nella natura delle cose), ma anche critica verso l’Ucraina di Zelensky, in linea con le posizione filo-russe e anti-atlantiste, politicamente disallineata addirittura alla minoranza che cerca di cavalcarne l’onda? Forse il Nobel vi sta sfuggendo di mano?