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Allarme: nei prossimi 5 anni mancheranno 11.800 medici

Secondo il laboratorio della Federazione delle aziende sanitarie pubbliche (fiaso) presentato all'assemblea annuale anche se si sbloccherà il turn over i medici che lasceranno il servizio saranno oltre 54 mila

Maria Rita Montebelli
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E' vero, abbiamo ancora più medici degli altri Paesi Ue con sistemi sanitari assimilabili al nostro, ma da qui al 2022 tra uscite dal lavoro dei baby boomer in camice bianco e numero contingentato di nuovi specialisti mancheranno all'appello 11.803 dottori anche se si andasse verso un totale sblocco del turn over. Questo anche a causa del fatto che il 35 per cento di loro lascia il lavoro prima dei sopraggiunti limiti di età. O perché si pre-pensiona o per andare nel privato. Mentre in entrata uno specializzando su quattro non opta per il servizio pubblico. E' questo il quadro del fabbisogno medico in Asl e ospedali tracciato dal Laboratorio Fiaso sulle politiche del personale, secondo uno studio presentato nei giorni scorsi a Roma in occasione dell'Assemblea annuale della Federazione delle aziende sanitarie pubbliche. “Le uscite anticipate dei medici dal servizio pubblico hanno varie ragioni, come la paura dell'innovazione organizzativa e tecnologica e di veder cambiare in peggio le regole del pensionamento, oppure – spiega il neo-confermato presidente Fiaso, Francesco Ripa di Meana - il dimezzamento necessario dei posti di ‘primario', che ha finito per demotivare tanti medici a proseguire una carriera oramai senza più sbocchi. Ma i numeri forniti dallo studio - sottolinea - più che un segnale di allarme devono rappresentare uno stimolo al cambiamento delle politiche del personale e all'innovazione dei modelli organizzativi. In che modo? "Ad esempio valorizzando maggiormente figure della dirigenza, inclusa quella proveniente dal comparto, o ancora - aggiunge - modelli di integrazione tra pediatri e medici di medicina generale da un lato e ospedalieri dall'altro. Oppure potenziando il raccordo tra specialisti ambulatoriali e gli stessi medici ospedalieri coinvolti in nuovi percorsi di carriera che valorizzino le professionalità. Innovazioni già in atto in molte nostre aziende e che insieme alle altre elencate nelle conclusioni dello studio possono trasformare in opportunità di miglioramento dei servizi la criticità del fabbisogno di medici nel nostro Paese”. Ma vediamo più nel dettaglio i contenuti dell'indagine, svolta su un campione ampiamente rappresentativo di 91 aziende sanitarie e ospedaliere, pari al 44 per cento dell'intero universo sanitario pubblico. Le uscite dal lavoro dei medici pubblici. Il primo dato a saltare all'occhio è il primato italiano di anzianità dei nostri medici, che nel 51,5 per cento dei casi hanno superato i 55 anni di età, contro il 10 per cento del Regno Unito, il 20 per cento o poco più di Olanda e Spagna, mentre Francia e Germania si collocano al secondo e terzo posto ma con percentuali di medici con i capelli bianchi del 40 circa per cento. Questo perché ai molti che hanno via via abbandonato i loro posti per sopraggiunti limiti di età o per altre ragioni non hanno fatto seguito che poche assunzioni a causa dei reiterati blocchi del turn over. La proiezione nazionale dei dati del campione dice che dal 2012 al 2017 24.651 dirigenti medici hanno lasciato il servizio. Una media di circa 4.100 cessazioni l'anno. Che hanno generato il progressivo invecchiamento della popolazione medica, tant'è che se del campione solo nel 2012 erano in 422 a spegnere le 65 candeline che spesso coincidono con la pensione, lo scorso anno la platea dei potenziali pensionandi era salita a quota 2.087. E il trend è in costante crescita. Calcolando il coefficiente medio di cessazioni, relativo al triennio 2015-2017, le proiezioni Fiaso da qui al 2025 dicono che complessivamente 40.253 medici compiranno i 65 anni mediamente buoni per il pensionamento ma le cessazioni saranno molte di più: 54.380.  In pratica il 35 per cento dei medici, uno su tre, lascia il servizio sanitario pubblico per motivi diversi dai sopraggiunti limiti di età. Dalle informazioni raccolte tra le aziende che hanno partecipato all'indagine la prima causa è da ricercare nei pre-pensionamenti, mentre uno su cinque avrebbe optato per il privato. Resta il fatto che se il numero dei medici sessantacinquenni rappresenta oggi il 13 per cento del totale da qui al 2023 la percentuale è destinata a raddoppiare, passando al 28 per cento. Le specialità mediche con più carenze di organico. Le criticità variano comunque da una specialità all'altra. Nei prossimi otto anni ad esempio i medici dei servizi sanitari di base si estingueranno, mentre gli igienisti si ridurranno del 93 per cento e i patologi clinici dell'81 per cento. Internisti, chirurghi, psichiatri, nefrologi e riabilitatori si ridurranno a loro volta di oltre la metà, anche se il maggior numero di cessazioni dal lavoro in termini assoluti si avrà tra gli anestesisti, che lasceranno in 4.715 da qui al 2025. Anche se poi non sempre questi numeri corrispondono alle criticità segnalate dalle aziende sanitarie, che in cima alla lista delle specialità mediche con carenze di organico più critiche mettono nell'ordine anestesia, medicina e chirurgia d'urgenza e pediatria, che pure figura nella parte bassa della classifica per cessazioni in numeri assoluti. Questo perché evidentemente il tasso di ricambio dei pediatri ospedalieri è ancora più basso che in altre specialità. Probabilmente per la tendenza dei giovani specializzati ad optare per la professione in regime di convenzione, anziché di dipendenza. I problemi 'in entrata'. Se un medico su tre lascia il servizio pubblico per motivi diversi dai sopraggiunti limiti di età, uno specializzato su quattro opta anche lui per altro, come il lavoro nel privato, in convenzione o magari all'estero. Questo, più i contratti di specializzazione contingentati, crea un gap crescente dal 2017 in poi tra medici neo-specializzati e medici che lasciano il posto.  Dal 2018 al 2022 avremo 11.800 medici in meno di quelli necessari a sostituire chi ha lasciato il proprio posto. E il gap maggiore si avrà per Igiene pubblica (- 2.670) medicina interna (-1.638), medicina d'urgenza (-1.080) e chirurgia generale (-1.039). Ma la soluzione del problema non sembra tanto, come da più parti auspicato, quella di ampliare il numero di accessi alle scuole di specializzazione. A ben vedere infatti i giovani laureati in medicina coprono infatti già oggi a malapena i posti messi a disposizione per le specializzazioni se a questi si aggiungono i circa mille per la formazione dei medici di medicina generale. E abbattendo il numero chiuso nelle Facoltà di medicina bisognerebbe attendere 9-10 anni per vederne gli effetti in termini di reali disponibilità in organico. Le proposte Fiaso per uscire dall'emergenza. “Considerato che l'aumento dei posti disponibili nelle scuole di specializzazione non avrebbe effetti nei prossimi anni e non sarebbe in ogni caso efficace per carenza di laureati in medicina da inserire, il tema è a questo punto ragionare sul miglior utilizzo delle competenze professionali attuali”, spiega Ripa di Meana, anticipando il lungo elenco di proposte avanzate da Fiaso al termine dell'indagine. Tra queste lo sviluppo dei reparti basati sull'intensità di cura e complessità assistenziale per la gestione di cronici e post-acuti; l'investimento in nuove figure professionali che arricchiscano il middle management come l'ingegnere gestionale o biomedico; il pieno coinvolgimento dei medici di medicina generale nel sistema di continuità assistenziale; contratti ad hoc per i medici che prolunghino l'attività fino a 70 anni, prevedendo il  superamento del limite contributivo di 40 anni; la definizione di una lista di attività che potrebbero essere svolte dal medico in formazione specialistica. “Si potrebbero anche prevedere nuovi modelli contrattuali per i medici che non accedono alle scuole di specializzazione, con percorsi protetti da sistemi di tutoraggio e formazione in azienda. O ancora inserire medici neo-laureati non specializzati per la gestione di pazienti post-acuti - aggiunge il presidente Fiaso - Un percorso che trasformi il problema del fabbisogno specialistico in occasione per introdurre la necessaria innovazione nei setting di cura centrati sul paziente, nella tecnologia e, in definitiva, nella cultura di tutti gli operatori. Tutto ciò non può che essere basato su nuovi investimenti nel capitale umano del Ssn”. (EUGENIA SERMONTI)

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