Quando il commissario Auricchio (Lino Banfi) - nel film cult Fracchia la belva umana - intona «Non sono frocioooone, non mi chiamo Frì Frì», lui c’è ed è lì, al suo fianco nei panni del vice De Simone. Come è con Adriano Celentano quando - ne Il bisbetico domato - la bellissima Ornella Muti, in auto, si toglie il reggiseno. E ancora. Recita con Beppe Grillo in Scemo di guerra, con Carlo Verdone in Un sacco bello, con Nino Manfredi in Spaghetti house e con Jerry Calà in Professione vacanze, tanto per citare solo alcuni degli 80 film interpretati. Sì, perché Sandro Ghiani è stato uno dei principali caratteristi degli Anni ‘80 e ’90, il sardo timido e un po’ impacciato che riusciva a far ridere (ma anche commuovere in alcune pellicole più serie come I dimenticati o Passione d’amore) pur parlando pochissimo. Sandro ora ha 72 anni, si è tolto dal cinema e ha cambiato totalmente vita: si gode la pensione in campagna a Bracciano - tra gli animali e il verde -, dove vive e gestisce 6 ettari di terreno con 300 piante di olivi.
Sandro Ghiani, che relax all’ombra di questo albero.
«Quando mi sono trasferito qui in campagna con mia moglie Rosa, nel 2006, c’era solo lui: il resto lo abbiamo costruito poco alla volta».
Complimenti, il risultato è spettacolare.
«Sono 6 ettari di terreno con 300 piante di olive, 60 di frutta, poi noci, mandorle. Abbiamo una piscina, l’orto e le galline, due cani e due gatti. E produciamo olio».
Fa tutto lei?
«Sì, di tempo libero ne ho: sono in pensione da 8 anni».
E il cinema?
«Non è più il mio ambiente, quello che facevo io è morto. Oggi lavorano sempre gli stessi sei attori e non ci sono più i registi di una volta, gente come Scola, Steno, Risi che valorizzavano gli artisti».
Come mai quel sorriso amaro?
«L’altro giorno mi hanno proposto una piccola parte, un cameo, ma pretendevano che facessi un provino...».
Film ne guarda?
«Al cinema non vado da una vita, l’ultimo che ho visto in tv è stato “Hugo Cabret”».
Le manca il mondo dello spettacolo?
«No, perché durante l’inverno recito a teatro a Roma e mi diverto: siamo una compagnia mista, con ex del cinema come me e Sergio di Pinto, ma anche attori amatoriali. Con noi c’era pure Alvaro...».
Alvaro Vitali?
«Abbiamo lavorato insieme fino a poche settimane prima della sua morte: era affaticato, ma entusiasta».
Torniamo a lei. Oltre a lavorare in campagna e fare teatro ha altri hobby?
«Scrivo e ho già pubblicato due libri (“Pane e zucchero” e “Il primo autografo non si scorda mai” ndr) in cui racconto la mia vita e la mia carriera. Partendo dalla Sardegna fino a...».
Aspetti, andiamoci insieme in Sardegna e indietro nel tempo. Al piccolo Sandro.
«Nasco l’8 novembre 1953 a Carbonia, ma sono di Caput Acquas per essere precisi».
Figlio unico?
«Cinque fratelli: tre maschi e due femmine».
Che bambino è?
«Fino a 8 anni gioco scalzo sulla ghiaia e sono davvero felice, è il periodo più bello della mia vita».
Poi?
«Si ammala mio padre Attilio e dopo la sua morte cambia tutto. Ho 13 anni, lui mi manca e mi chiudo in me stesso, non parlo più, non comunico, non ho amici. E mamma Augusta si preoccupa».
Come ne esce?
«Un prete mi propone di fare il chierichetto e frequentare l’oratorio. Mi sembra una buona idea per distrarmi, mi piace».
Perché quello sguardo basso?
«Quello stesso sacerdote, però, poco dopo inizia ad accarezzarmi, sempre con più insistenza, fino a toccarmi nelle parti intime».
Non riesce a ribellarsi?
«Non ne ho il coraggio e non lo dico a nessuno, resta un terribile segreto. Finché, per fortuna, un altro prete mi propone di fare la terza media in seminario a Selargius. E l’anno successivo mi trasferisco a Tortona, dove c’è l’unico Istituto di don Orione, per frequentare il ginnasio».
E in Piemonte si avvicina al teatro.
«Merito di don Bernini, il direttore, che capisce subito che non sono lì per vera vocazione e mi aiuta riprendere fiducia in me inserendomi in un gruppo di attori».
Funziona?
«All’inizio sono terrorizzato, ma quando salgo sul palco mi trasformo, mi sento sicuro e il pubblico ride. Così inizio a recitare in svariate operette».
In quegli anni pensa mai di poter fare carriera nel mondo spettacolo?
«È il mio sogno e sa che combino?».
Cosa?
«Decido di scrivere a Celentano per elencargli le operette in cui ho partecipato, dicendo che vorrei recitare e bla bla bla. Peccato che, ingenuamente, imbuco la lettera senza metterci nessun indirizzo, ma solo la città: Milano. È così famoso che, penso, gli arriverà ugualmente...».
Lei, invece, quando arriva al cinema?
«Nel 1975 sono a Roma per il servizio militare ed entro nel gruppo teatrale e nel coro del genio pionieri della Cecchignola. Finita la leva, poi, decido di trasferirmi nella Capitale».
Per cercare lavoro?
«Vado tutti i giorni, in tram, a Cinecittà sperando di ottenere una parte finché una mattina dicono: “Abbiamo bisogno di un pastore sardo!”. Mi faccio avanti emozionato, ma prendono uno spilungone. Poi, la volta successiva, mi scartano dicendo che sono troppo alto. Doppia beffa».
In carriera, però, poi interpreterà quasi sempre il ruolo del sardo diventando Porcu, Puddu, Cuccureddu.
«Accento marcato, timido, di poche parole: in realtà faccio sempre me stesso. E non c’è mai bisogno di fare provini, mi vedono e mi scritturano all’istante».
L’esordio è nel 1976, quando viene scelto per “Sturmtruppen”.
«Cast stellare con Pozzetto, Teocoli, Toffolo, Ponzoni, Boldi, Andreasi, Smaila e Corinne Cléry, tanto per fare qualche nome. Si gira in una vecchia cava di zolfo vicino a Roma, è agosto e fa un caldo insopportabile: siamo vestiti con giacca e pantaloni di lana, anfibi e zaino pesante. Devastante».
Il suo secondo film, invece, è “I peccati di una giovane moglie di campagna”.
«Quando esce nelle sale in Sardegna invito i miei amici a vederlo, sono orgoglioso di mostrare che sto facendo strada nel cinema. La pellicola è una commedia sexy all’italiana e sono sicuro che farò bella figura, ma a sorpresa, durante la proiezione, ci accorgiamo che, senza dirci niente, sono state aggiunte scene pornografiche. Risultato: gli amici se ne vanno a metà scandalizzati. Che figura».
Andiamo avanti raccontando qualche altra pellicola. Nel 1979 recita in “Un sacco bello” con Carlo Verdone.
«Mi dicono: “Per questo ruolo devi tagliarti i capelli”. E io: “Nessun problema”. Poi scopro che mi devo rasare a zero perché interpreto un monaco, “un arancione”».
Film di grande successo, però, e lei inizia a diventare famoso.
«Insomma, se vuole le racconto del primo autografo».
Certo.
«Vado in un bar in centro a Roma e il cameriere mi fissa. Si avvicina: “L’ho riconosciuta e vorrei farle i complimenti. Anzi, mi fa una firma?”. “Certo”, rispondo. Mi dà un foglio e una biro e, soddisfatto, commenta: “Chissà come mi invidieranno i miei amici, signor Matteoli”. Capito? Mi confonde con il calciatore sardo!».
Quando gli spiega la verità, poi, ci resta male?
«Quale verità? Io, per non deluderlo, prendo il foglio e mi firmo Gianfranco Matteoli».
Meraviglioso. Nel 1980 le danno una parte ne “I carabbinieri” con Bracardi e Bombolo.
«Bracardi è ingestibile, improvvisa a va sempre fuori copione con i suoi “pinn, pinn” fregandosene dell’incazzatura del regista. Bombolo, invece, è un semplicione, è tenero».
Nello stesso anno ha un ruolo ne “Il bisbetico domato” con Adriano Celentano e Ornella Muti: fa il benzinaio in una scena mitica.
«Che modifico inconsapevolmente».
Cioè?
«Il copione è semplice: Ornella litiga con Adriano e, in auto, si toglie il reggiseno. Io, che sto facendo benzina alla loro auto, vedo tutto e devo reagire con uno sguardo sorpreso. Tutto qui. Però mi emoziono, resto incantato, rimango immobile e mi dimentico di fermare la benzina che continua a uscire dalla pompa allagando il piazzale. Quando me ne accorgo sono preoccupato, temo che Celentano si arrabbi e si debba ridare il ciak. E invece tutti ridono e la scena, nel film, resta così».
A proposito di donne, lei ha recitato con tutte le più belle: la sua preferita?
«Laura Antonelli, che ai tempi del seminario, quando andavo al cinema, ammiravo in film come “Peccato veniale” e “Malizia”. Nel 1981 me la ritrovo sul set mentre giriamo “Passione d’amore” e una sera, a cena, il regista Scola mi invita al tavolo con loro».
Un sogno?
«Un incubo: mi si chiude lo stomaco dall’emozione e non mangio nulla, non apro bocca e non so cosa fare».
Tra la Antonelli e la Fenech, con la quale gira “Asso” nel 1981, invece, chi sceglie?
«Nessun dubbio, sempre la Antonelli che non è per niente rifatta».
A proposito di miti femminili, quell’anno lei partecipa a “Miracoloni”, pellicola nella quale recita pure Moana Pozzi.
«In quel periodo abita vicino a me, a Trastevere, e dopo il film vado a trovarla per proporle una parte a teatro. Mi apre ed è bellissima, ma risponde che non è interessata perché è impegnata».
Sempre nel 1981, invece, esce un film diventato cult: “Fracchia, la belva umana”.
«Il regista e produttore Neri Parenti, al colloquio, mi spiega: “Il cast è chiuso, non c’è una parte per te. Ma la tua faccia mi piace, se vieni provo a inserirti nel film in qualche modo”».
Segue il consiglio?
«Sì, mi presento sul set speranzoso. Banfi interpreta il commissario Auricchio e nasce l’idea di farmi fare il suo vice chiamandomi De Simone, che è il cognome del manager di Lino. Io chiedo solo una cosa: di “farmi parlare il meno possibile”. La prima scena è quella di “balliamo” alla radio e io non dico una parola, ma commento tutto con la mimica. Alla fine Banfi è entusiasta: “Sandro è bravo!!”. E Villaggio si sbilancia: “È uno dei nostri”».
Il suo personaggio De Simone, poi, partecipa a tutte le scene migliori della pellicola. Diventando famosissimo.
«Ancora oggi la gente, quando mi incontra, mi chiama De Simone anziché Ghiani».
Ne “La sai l’ultima su... i matti”, pochi mesi dopo, recita con Giorgio Porcaro.
«Fa il “terruncello”, ma si lamenta: è infastidito e dispiaciuto che Abatantuono gli stia copiando il personaggio».
Sandro, il prossimo film da raccontare lo scelga lei: guardi la lista dei titoli.
«“Spaghetti house” del 1982, lungometraggio drammatico con Nino Manfredi. Interpreto un giovane sardo, Efisio Puddu, e in una scena devo iniziare a piangere a dirotto. Provo, riprovo, ma proprio non riesco, le lacrime non scendono, non entro nel personaggio. Finché Nino Manfredi mi prende a braccetto e mi porta nel suo camerino, mi offre un caffè e mi fa rilassare. E poi...».
Che succede?
«Nino si fa serio: “Ora parlami di te, Sandro”. Io prendo coraggio e inizio a raccontare della Sardegna, della morte di mio padre, del seminario. Lui ascolta senza dire niente, poi mi invita a tornare sul set. Poco prima di girare la scena in cui devo piangere si avvicina e sussurra: “Sandro, la senti la nostalgia e il dolore per tutto quello che hai perso da bambino? I tuoi giochi, il paese, tuo padre che ti ha lasciato troppo presto?”. Come per magia, in quel momento, mi scendono lacrime vere, sento dolore vero, entro nella parte e piango davanti alla macchina da presa. Una lezione incredibile».
Questo non è l’unico suo film impegnato, vero?
«No e mi spiace che la gente non lo ricordi. Ho recitato anche ne “I dimenticati”, in “Scemo di guerra”, in “Passione d’amore”, in “Tre colonne in cronaca”. Ruoli drammatici e di grande soddisfazione».
Oltre al cinema lei ha fatto anche qualche esperienza come doppiatore.
«Sala di registrazione, il regista mi spiega solo che si tratta di una fiction con Gaia De Laurentiis e sono gasato, provo a immaginarmi a quale attore maschile darò la voce. Arriva il momento, metto le cuffie per un breve dialogo, sullo schermo appare un cane in primo piano che abbaia e aspetto...».
E che succede?
«Interviene il regista: “Stiamo registrando, perché non parli?”. “Sto aspettando l’attore”, rispondo. Silenzio imbarazzato. Poi: “Ma no, devi doppiare il cane!!”».
Sandro, ultime domande veloci. 1) Rapporto con la religione?
«Detesto i preti, ma ogni giorno prego».
2) Paura della morte?
«No, temo le malattie».
3) Il miglior comico di sempre?
«Charlie Chaplin e Buster Keaton».
4) Un film in cui avrebbe voluto recitare?
«“Il nome della rosa”. Avevo appena fatto la pubblicità della Lemonsodà in Francia, Jean Jacque Annaud cercava qualcuno per il ruolo di Salvatore e mi ha chiamato.
Poi, però, gli hanno imposto un attore inglese».
5) Il film per il quale va più orgoglioso?
«Difficile scegliere tra 80 titoli. Però “Professione vacanze” va in onda ogni estate da 39 anni, è un record».
6) Prima ha raccontato delle attrici bellissime con cui ha lavorato: lei ha mai avuto un flirt sul set?
«Sì».
Ma dai? Raccontiamo.
«Però senza fare nomi. Io ero agli inizi, ancora sconosciuto, e lei era già famosa. Ero timidissimo, parlavo poco ed evidentemente le ho fatto tenerezza».
Ma è successo durante le riprese del film?
«Avevamo una pausa, lei teneva le cuffie alle orecchie e mi ha fatto cenno di seguirla dicendo: “vieni ad ascoltare la musica in camera da me?”».
Ha accettato?
«Sì ma pensando, ingenuamente, di andare veramente a sentire una canzone. Invece...».
7) Qualcuno che vorrebbe riabbracciare?
«I miei genitori e poi don Bernini, che ha fatto tanto per me».
8) Ha guadagnato molto in carriera?
«Sì, parecchio: quello che vede qui me lo sono pagato grazie ai contratti».
9) Oltre ai soldi, cosa altro le ha dato il mondo dello spettacolo?
«Negli anni sono cresciuto insieme con il mio personaggio e recitare è stato come partecipare a una lunga e grande seduta di psicoterapia. Il cinema mi ha guarito». Ultimissima. Sandro, ha ancora un sogno?
«Fare un film tratto da “Un cuore grande così”, il primo racconto del libro “L’angelo della porta accanto” scritto insieme con Susanna Trossero: a ottobre avrò la risposta di un produttore».
Chiederà di recitare a qualcuno degli attori con cui ha lavorato?
«Lino Banfi lo sa già, per lui c’è un piccolo ruolo: farà un personaggio muto».
E lei?
«Ho una particina, ma sarò anche il regista: l’unico modo per convincermi a tornare al cinema è farmi fare un film tutto mio».