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Mundial '82, il trionfo che fece uscire l'Italia dal complesso di inferiorità

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Francesco Specchia
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Il mondo si divide irrefutabilmente in due categorie: quelli che hanno visto i Mondiali dell'82, e quelli che se lo sono perso. Ma, in fondo, non bisogna fargliene una colpa. Quel miracolo laico ha segnato tutte le generazioni che l'hanno vissuto. Domani sono quarant' anni dalla finale con la Germania che ci gettò in uno stato di grazia, fiducia e euforia, su cui l'Italia campò almeno per il decennio successivo, cancellando gli anni del terrorismo e contenendo la spirale della crisi economica. Sono passati quarant' anni, e ancora raccontiamo ai nostri figli, nelle notti, per farli addormentare il viaggio degli eroi di Bearzot, la maschera fenicia con la pipa che credeva nel favore e nel capriccio degli dei: un viaggio che confondiamo sempre con quello degli spartani alle Termopili.

 

 

 

FORMAZIONE A MEMORIA

E ci sale - ora come allora - la commozione in automatico, e si gonfia la lacrima, solo a sentire la formazione della leggenda "Zoff-Gentile-Cabrini...", fino ad arrivare alla figura stordita e caracollante di Paolorossi, che, all'improvviso sbuca dal crepuscolo dell'area di rigore con lo stigma della vendetta, e segna il primo gol di testa al Brasile; e infila altre due pappine benedette dalla rete annullata di Antognoni ("Il migliore del Mondiale, anche se noi lo ignoravamo" scrisse Mario Sconcerti) e s' infila nella selva di gambe della difesa tedesca, e segna ancora. Aprendo la strada all'urlo di Tardelli che mangiava ogni metro di terreno con la furia d'un cigolato; al braccio al cielo di Altobelli; agli arabeschi di Bruno Conti; alla vita da mediano di Oriali a cui Ligabue dedicherà una canzone; al Presidente Pertini che scatta e applaude; alla Coppa al cielo issata da Zoff, che chissà cosa sarebbe successo se non avesse parato al 90' il colpo di testa di Oscar col Brasile, sulla linea di porta. Tutto questo è stato il Mundial dell'82, un'eresia, un racconto di riscatto, un tumulto fatto della stessa materia dei sogni. Oggi siamo affogati dalle sue commemorazioni. Fioccano gli speciali in tv.

DOCUFILM E LIBRI

Raiuno ne trasmette la dimensione epica in un docufilm di Manlio Castagna; Rainews ha evocato in El Partido il focus su Italia-Brasile ispirato anche da La partita di Piero Trellini; e Sky Tg24 in 1982 andata e ritorno spinge Giuseppe De Bellis, Beppe Bergomi, Carlo Cottarelli e Giacomo Papi sullo stesso aereo del ritorno a casa degli azzurri, quello della partita a scopone tra Bearzot e Pertini, e fa loro raccontare l'impatto sociale ed economico di quell'evento sull'anima della nazione. Eppoi, c'è la formidabile eredità di Vittorio Sermonti, non solo dantista, di cui Garzanti riproponeprefata da Dino Zoff - Dov' è la vittoria? Cronaca delle cronache dei Mondiali di Spagna 1982 (pp 520, 25 euro). Trattasi d'un clamoroso racconto in lieve differita (il libro uscì nel 1983) del cammino della Nazionale al torneo spagnolo. Un racconto costruito non direttamente, ma attraverso gli articoli dei principali giornali italiani, analizzati con grande acume e messi a confronto mescolando le competenze di Sermonti, allora prof di letteratura e, al contempo, appassionato di football. Sermonti- come afferma Pigi Battista- era il metronomo e lo sfottò del giornalismo sportivo del tempo (e non solo): registrava, spietato, "l'attitudine tutta italiana al codardo oltraggio che precede il servo encomio. Il linciaggio prima che inventassero i social. I finti esperti che si ergono a capipopolo per poi genuflettersi al vincitore". Ossia tutti coloro che, nel giro di pochi giorni, passarono dalla denigrazione, anche sul piano personale, di molti azzurri alla loro esaltazione acritica ma per usare il calcio nel modo più alto possibile, come metafora di un'esistenza in cui tutto cambia da un momento all'altro in base a intuizioni, situazioni, colpi di fortuna e sfortuna. Ogni cronista, in quei giorni, si sentiva invaso dallo spirito di Osvaldo Soriano. Ogni scribacchino si sentiva- chissà perché- in dovere di disegnare rabone, doppi passi e veroniche con la penna. Eppure, quel Mundial ebbe una funzione magica, quasi negromantica. Rianimò il cadavere di uno Stato vinto dai venti dello sconforto. Fu il rosario sgranato di fronte alle grandi crisi: dall'inflazione che viaggiava al 17% divorando il potere d'acquisto degli stipendi al debito pubblico che cominciava a crescere, allo spread dei record a 1175 punti base rispetto ai decennali tedeschi, che noi ragazzi di allora scambiavamo per i contratti di Breitner e Rumenigge finiti in finale al Santiago Bernabeu. Dopo quella partita la fiducia nel governo toccò vertici impensabili raggiunti solo con l'episodio di Sigonella di Craxi e forse, oggi, grazie allo standing internazionale di Draghi.

 

 

 

SPETTACOLO IN TRIBUNA

A Madrid, lo spettacolo non fu solo la falange azzurra che piombava sui tedeschi con la furia della Wermacht. A Madrid, in quella tribuna affollatissima, osservammo tutti il volto atterrito di Helmut Schmidt, Cancelliere della Rft, immerso in silenzio innaturale e in un quesito chatwiniano: «Che ci faccio qui?». La Germania era stata da sempre il nostro Moloch, ci descriveva sulle copertine dei rotocalchi come un popolo di mangiaspaghetti armati di lupara, ci trattava come eterni migranti con la valigia di cartone. Ma ora era stata asfaltata, il marco non ci intimoriva più, potevamo fare anche a meno dei tedeschi maleducati in sandaloni che intasavano le rive del Garda. Avevamo, insomma vinto il nostro infinito complesso d'inferiorità, ci eravamo ripresi la dignità perduta e il senso dell'onore. Ci campammo per anni, su quello scatto di lombi, almeno fino all'arrivo della Merkel. E tuttora, ai nostri figli, continuiamo a narrare le gesta di Pablito e dei suoi cavalieri. Un Leonida più minuto, con la maglia numero 20... 

 

 

 

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