Quattro partite, nove gol fatti, zero subiti. Dopo il tonfo all’esordio con la Cremonese, il Milan si è sistemato. D’incanto, d’un tratto, come se qualcuno avesse premuto un interruttore facendo “clac”. In realtà, la magia non c’entra nulla. Questo rendimento è figlio di una strategia finalmente chiara e resa visibile nel momento della chiusura del mercato: Rabiot arrivato fotofinish con Nkunku ha fatto emergere il disegno di una rosa scarna, minimalista, ma con una stratificazione chiara tra supergiovani e leader, quindi con gerarchie precise e un ordine ristabilito. Esattamente ciò che erano chiamati a fare il nuovo ds Tare e, soprattutto, il nuovo allenatore, Massimiliano Allegri.
È presto per dire dove arriverà questo Milan, ma avevamo già ipotizzato che l’assenza di coppe potesse renderlo un contendente per lo scudetto. Oggi si può già dire con certezza che il progetto funziona e questa, considerando il recente passato, è una vittoria. Il motivo non è un presunto cambio di filosofia di Allegri, ma il fatto che il “vecchio” Allegri è l’uomo perfettamente adatto alle esigenze del Milan di oggi. Max sta sistemando la squadra tra tattica e psicologia, non adattandosi lui, ma semplicemente essendo sé stesso nel posto che più aveva bisogno del suo modus manageriale. Lui è profondamente manager, più che allenatore. E il suo modo di pensare il calcio, oggi, si adatta ai tempi che corrono. Sono finiti gli anni del tatticismo esasperato; dopo l’evoluzione e la controrivoluzione, dell’uomo-contro-uomo contro il calcio posizionale, siamo in un momento di consolidamento del nuovo status quo. In questo scenario, Allegri che non ha un’idea di calcio estrema e quindi si adatta facilmente al periodo “piatto”, è perfetto. E lo è a maggior ragione per il recente passato: rispetto a quattro anni fa, quando tornava alla Juventus da pluridecorato di scudetti, ora è reduce da un triennio con una sola Coppa Italia. Per forza di cose non ha più quell’alta cresta.
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Il Milan aveva un disperato bisogno di equilibrio, tattico e gestionale, più che di un’identità di gioco coinvolgente e caratterizzante. E Allegri questo offre da sempre. Aveva bisogno di una gerarchia chiara nella rosa ma, ancor prima, nella filiera decisionale, e Max è un manager all’inglese che sa gestire le risorse umane a disposizione come sa dialogare con "i superiori" (finché questi non gli voltano le spalle come successo con Giuntoli). La rosa volutamente corta, con soli 22 giocatori di cui 19 di movimento, è stata una scelta strategica ardita che Tare e Allegri hanno condiviso e che sta già pagando. È cortissima, se si pensa che giovani come Odogu, Athekame e Bartesaghi non sono tappabuchi, ma le prime, necessarie alternative. Questo snellimento è un’idea intelligente: in una rosa troppo larga come quella passata, le responsabilità venivano cedute al vicino di banco. Ora non è più possibile. A tal proposito, gli innesti di Modric e Rabiot sono stati chirurgici. Il leader assoluto per aura e il leader silenzioso giunto all’età giusta per diventare trascinatore. Hanno risolto il problema della leadership, ponendosi anagraficamente e per carisma sopra i vari Maignan e Leao. E, vista la rosa corta, non possono limitarsi a fare le “chiocce”: devono giocare, sempre. Pochi ma buoni, insomma, è il nuovo motto di Milanello.
La morale è che Allegri ha già cambiato il Milan, ma il Milan non ha cambiato Allegri, ed è proprio in questa coerenza che si nasconde l’efficacia quasi istantanea del suo lavoro. Domenica contro il Napoli di Conte - che l’anno scorso ebbe un impatto simile- sarà una prova importante ma non definitiva. Ci sarà Leao che ieri ha ripreso ad allenarsi in gruppo, magari non dall’inizio ma in corso sicuramente, e diventa qualcosa di simile a un nuovo acquisto. Il Milan non deve illudersi che il più sia fatto, ma può affrontare il futuro con la serena consapevolezza che, finalmente, il peggio è alle spalle.