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Immigrazione, l'analisi di Dario Fabbri: "Quando dobbiamo dare soldi ai dittatori", lezione a Luciana Lamorgese

Mirko Molteni
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All'indomani della seconda conferenza di Berlino sulla Libia, la situazione resta critica e continuano a salpare i barconi di migranti da quelle coste. Il governo del premier Abdul Hamid Dbeibah, che dovrebbe traghettare il paese alle elezioni del 24 dicembre, è condizionato dalla presenza di truppe e mercenari di potenze straniere, in primis Turchia e Russia, che appoggiano rispettivamente Tripoli e la Cirenaica del parlamento di Tobruk e del generale Khalifa Haftar. La stabilità è lontana e si prefigura il pagamento di grandi somme a Tripoli per impedire ai migranti di salpare. Intanto al Consiglio europeo si discute di altri tre miliardi da dare allo stesso Sultano per sigillare anche la rotta balcanica. Abbiamo intervistato Dario Fabbri, coordinatore Americhe per la rivista di geopolitica Limes.

 

 

 

Da anni l'Unione Europea paga la Turchia del "sultano" Recep Erdogan per non far partire milioni di profughi siriani, tanto che Bruxelles sta pensando di sganciare ulteriori 3 miliardi di euro ad Ankara. Ora ecco una soluzione simile nei confronti di Tripoli, dove sono sempre i turchi a dettar legge. Si parla di 8 miliardi da versare all'esecutivo di Dbeibah. Funzionerà tale approccio da realpolitik?

«Pagare Tripoli perché impedisca le partenze dei migranti può funzionare se nei fatti saranno i turchi a controllare le coste. L'attuale esecutivo libico di unità è una finzione, è la Turchia di Erdogan che comanda in Tripolitania. I turchi non se ne andranno, resteranno perché sono presenti con un piglio imperiale. Oggi, in pratica, l'Italia confina con la Turchia. È centrato il parallelismo con quanto Erdogan già fa nel suo Paese coi profughi siriani, trattenuti dietro pagamento da parte Ue. Pagare per fermare i migranti, però, può avere successo in Tripolitania, ma in Cirenaica la situazione è più complicata, poiché la presenza russa è frammista a quella di altri attori come Egitto, Emirati Arabi Uniti e Francia. Non credo probabile un approccio unitario libico alle migrazioni perché è tutto da dimostrare che il 24 dicembre si terranno elezioni panlibiche e il paese ritrovi l'unità».

Dunque, dopo che Erdogan da tempo mercanteggia sui profughi siriani in Turchia, si appresta a farlo, per mezzo di Tripoli, anche nella parte di Libia da lui egemonizzata...

«Non è un caso che Mario Draghi, dopo aver compiuto in aprile il suo primo viaggio diplomatico a Tripoli, abbia dichiarato che Erdogan è un dittatore. Era un messaggio rivolto agli Stati Uniti perchè si interessino della Libia. Ma gli Stati Uniti stanno delegando ad Ankara, comunque uno dei principali membri della Nato, la gestione della Libia. A parte alcuni contrasti, per Washington la Turchia è ancora preziosa alleata, antemurale dei russi nel Mar Nero, ma anche in Libia, dove Mosca sta dalla parte della Cirenaica. Il recentissimo incontro frail segretario di stato americano Antony Blinken e Dbeibah può considerarsi una consultazione Usa -Turchia per interposta persona del premier tripolino. I turchi fanno ciò che vogliono col governo di Tripoli, li convocano ad Ankara, li strigliano, li manovrano».

La storia si ripete. Anni fa, patti col dittatore Muhammar Gheddafi per fermare scafisti e clandestini; oggi accordi con un altro uomo forte, Erdogan, per gli stessi motivi. Si deroga alla democrazia in cambio della stabilità. È stata una iattura la caduta di Gheddafi?

«Certo, la caduta di Gheddafi è stata una iattura geopolitica. Parlo più del Gheddafi degli ultimi anni, degli accordi del 2008-2009 col governo di Silvio Berlusconi, che contemplavano riparazioni italiane per il periodo coloniale, ma anche il blocco delle partenze di barconi. Si sanciva una sfera d'influenza italiana in Libia. Proprio ciò ha spinto i francesi, seguiti dagli inglesi, ad abbattere nel 2011 il regime di Gheddafi. Speravano di insinuarsi tramite accordi con un nuovo governo libico unitario che però non c'è mai stato».

 

 

 

È come se all'inizio la Francia avesse tentato di entrare in Libia dalla porta principale, rassegnandosi poi a entrare dalla porta secondaria appoggiando Haftar in Cirenaica?

«In sostanza è così, ma la Francia è riuscita solo fino a un certo punto a controllare Haftar, con l'acme del 2018, quando il generale fu trattenuto a Parigi per cure mediche. Ma solo fino a un certo punto, dato il ruolo di altri sostenitori della Cirenaica, come russi, emiratini ed egiziani. Macron, di fronte alla sconfitta di Haftar, respinto fino a Sirte nel 2020 dalle truppe turche, è costretto a rimodulare la sua politica. La Francia vede le sue posizioni erose nell'area sahariana, in competizione con la Russia. L'opinione pubblica spinge Parigi a disimpegnarsi dal Mali, dove truppe europee, fra cui quelle italiane della missione Takuba, sostituiranno i francesi. E in Ciad in queste ore sono stati arrestati presunti turisti russi che pare siano mercenari del Cremlino. In Ciad, infatti, il governo è filofrancese, ma i russi starebbero appoggiando i ribelli».

Fra le idee emerse a Berlino, c'è l'ipotesi di dislocare un corpo militare europeo, forse fino a 10.000 soldati, sulle frontiere meridionali libiche, quasi prima linea contro terroristi e clandestini. Quanto è fattibile?

«Schierare militari dell'Unione Europea nel Sud della Libia è fattibile solo se la pensiamo in termini di autorizzazione da parte di Tripoli, cioè ancora la Turchia. Pagando una certa cifra, l'Europa può avere il "permesso" di inviare soldati, ma i turchi ci guadagneranno due volte. Da un lato si faranno pagare, dall'altro concederanno alle truppe Ue zone del Fezzan e del Sahara in cui non hanno spedito proprie truppe, sfruttandole quindi per una stabilizzazione per procura. Come se, per semplificare, i turchi chiedessero soldi in cambio del permesso di aiutarli a presidiare il paese».

 

 

 

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