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Coronavirus, Alessandro Giuli e l'ipocrisia della Germania: "Quelli che ci lasciano crepare ci invitano in spiaggia"

Alessandro Giuli
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Regola numero uno: mai fidarsi dei tedeschi anche quando portano doni, figurarsi se si limitano alla solidarietà pelosa e stereotipata come quella espressa ieri dalla Bild Zeitung che ci ha dedicato una delle sue mai troppo benevole paginate. Titolo maiuscolissimo: «WIR SIND BEI EUCH!» ovvero «Siamo con voi!»; con noi in quanto «Paese più colpito dal Coronavirus», come sottolinea l'immagine di un'aggraziata infermiera con mascherina d'ordinanza fotografata tra la bandiera italiana e quella germanica. Svolgimento, in estrema sintesi: a modo nostro vi vogliamo bene e sappiamo che ve la caverete; dunque: cavatevela!

Alla lettera, invero, il giornale tedesco si diffonde in attestati di stima e amicizia financo sdolcinati: «Vi siamo vicini in questo momento di dolore perché siamo come fratelli vi vediamo lottare, vi vediamo soffrire Siete sempre nei nostri pensieri. Ce la farete. Perché siete forti. La forza dell' Italia è donare l'amore agli altri». E fin qui siamo nei pressi del minimo sindacale che si deve ai cugini sfortunati in un rapporto di buon eurovicinato. Ma il periodare della Bild è immancabilmente inframezzato da una teoria di luoghi comuni paragonabili ai motteggi letterari del nostro Pier Vittorio Tondelli sul metallurgico bavarese che svacanza sulla battigia romagnola madido di birra e inguainato in sandali col pedalino bianco di spugna.

Nel caso in questione si alternano banalità sopportabili, cose tipo «ci avete aiutato a far ripartire la nostra economia» o «ci avete portato cose buone da mangiare»; con ovvietà che s'impennano in un crescendo retorico da romantica caserma teutonica: «Improvvisamente anche da noi c'erano antipasti, farfalle, tiramisù. Non più solo crauti e patate e polpettone Vi venivamo a trovare con il maggiolino, sulla Riviera, a Rimini, poi a Capri, Venezia e in Toscana. Cercavamo il mare azzurro e il profumo dei limoni, canticchiando Umberto Tozzi e Paolo Conte...».

I FIGLI DEL BAGNINO
Ecco fatto, dunque: una cartolina sentimentale, gratuita e involontariamente ironica, degna dei bozzetti derisori (in gergo: "meme") postati online dai nostri connazionali in risposta agli ingrati "fratelli tedeschi", così appellati in quanto sarebbero figli dello stesso bagnino riminese, inatteso protagonista in una di quelle indimenticabili vacanze rivierasche. Ciò che stupisce ancora meno, però, è il gran finale dell'articolo: «Ciao Italia, ci rivedremo presto, a bere un caffè, o un bicchiere di vino rosso. In vacanza oppure in pizzeria». Non un accenno a una qualsiasi forma di collaborazione attiva (al netto di qualche posticino nelle terapie intensive reperito per gli italiani intubati in eccesso); non una mezza promessa di ricambiare il contributo italiano a far ripartire l'economia della Germania, cui dopo il 1945 venne condonata almeno la metà dei debiti di guerra (analogo fu trattamento quando si trattò di riunificare la nazione dopo il crollo del Muro comunista). Nemmeno una vaga allusione all'opportunità, se non pure alla comune convenienza, di mutualizzare una parte del debito sovrano in via di emissione in tutta Europa contro l' emergenza sanitaria lancinante.

Ma guai a farci trovare sorpresi: sappiamo come sono fatti i tedeschi per lo meno dai tempi primonovecenteschi di Weimar che fecero da incubatore al nazionalsocialismo hitleriano. Berlino teme più l'inflazione della peste e nel vocabolario tedesco la parola "debito", "Schuld", ha una marcatissima connotazione morale equivalente al concetto di "colpa". Protestanti a intermittenza, gli amici germanici hanno sostituito al "pecca fortiter" luterano la gogna affilata e punitiva della Commissione che controllano. Sono indiscutibilmente la locomotiva padronale del Vecchio continente, epperò si autorappresentano come formiche operose anche perché la moneta unica ha lasciato invariato lo strapotere del Marco nella loro pingue bilancia commerciale che segna ogni anno attivi totalmente fuori misura rispetto ai tetti europei. Oltretutto, con qualche ragione dilatata all' estremo, si ostinano a disegnare noi italiani come le cicale del Mediterraneo che s'indebitano assieme a greci e spagnoli in una gara a chi sputtana meglio i soldi delle future generazioni.

 

 

Ma se di fronte alla loro ennesima professione di vicinanza la prima reazione nostra è sempre la stessa - dove starà la sòla? -, a ben vedere non è impossibile cogliere qualcosa d'incoraggiante perfino nella giaculatoria della Bild sulla pizza e sul mandolino afflitti dalla pandemia. Di che parliamo? In tre parole: paura e necessità. Anche in Germania, il cupo coraggio degli ottusi non fa che dissimulare l'arte di non ammettere con nessuno, se non con se stessi, un crescente terrore endogeno.

TERRORE DEI TERRONI
E i tedeschi sono appunto spaventatissimi: sanno che, in fatto di contagi e moribondi, loro come il resto del Continente sono una specie d'Italia in ritardo di due settimane. Proclamarsi amici di Roma vuol dire anche darsi una pacca sulle spalle, esorcizzare lo spettro del futuro in agguato, sperare che i terroni dell'Europa ne escano bene a dimostrazione che lo stesso decorso può avvenire in nazioni più sviluppate e dotate di sistemi sanitari meno zoppicanti.

Infine c'è la necessità, quella che gli psicanalisti junghiani definiscono la "causa erratica": un cieco incombere del fato al quale nessuno è in grado di sfuggire. Tradotto in soldoni: se l'Italia va a rotoli, prima o poi si trascinerà dietro tutti i suoi partner in un baratro senza fondo. In quest'ottica, una solidarietà gratuita a mezzo stampa potrebbe addirittura essere il prologo di un cedimento al buon senso dei Coronabond, quasi un carotaggio nell'opinione pubblica tedesca in vista dell' apertura d'una linea di credito che toglierà al metallurgico bavarese una quota della sua possente ricchezza. In attesa di tornare a svacanzare sulla riviera romagnola, per riscoprirci un giorno figli e fratelli della stessa estate.

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