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Un Paolo Mieli spietato e moderno, Vittorio Feltri: se manca memoria un paese affoga nel presente

Vittorio Feltri
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 Lotto quotidianamente con un iPad ingrato che omaggio ogni giorno scrivendo ormai soltanto su quello, però lui mi nasconde le cose, fa sparire le foto che mi mandano per posta elettronica, e non avendo più un foglio di carta vera davanti, lavoro nella paura che la tavoletta si spenga di colpo e tutto quel che sto facendo vada perduto; ma soprattutto, l'onniscienza satanica dei motori di ricerca mi seduce, m'impigrisce, m'induce a non esercitare più la memoria. Non è un problema solo mio. L'accesso immediato e a chiunque alla enorme (e quindi inafferrabile) quantità di informazioni accatastate su internet non ha salvato gli uomini dalla dimenticanza o, peggio, dal ricordo selettivo. Per chi non è "nativo digitale" (leggi: ragazzino nato con un cellulare in mano), le informazioni sono troppe e in più ai nostri occhi escono tutte dallo stesso minuscolo posto, uno schermo.

Ragion per cui, per chi non è addestrato al web fin dalla nascita è come mettere la mano in un secchio d'acqua abbagliante e profonda: ci si smarrisce, e ci sgomenta avere accesso a una messe di dati, fatti e opinioni che non avremo mai tempo di visitare compiutamente. Peggio ancora, non si trovano in un luogo fisico, con dei confini chiari, per esempio un libro: ci compaiono e scompaiono davanti a ogni movimento, basta la fuga inavvertita di una frazione di polpastrello sul tasto sbagliato per rovinare ore di ricerche. I giovanissimi sono più attrezzati tuttavia non se la passano meglio: avere tutto a disposizione cancella stimoli e curiosità, li spinge a pensare e agire alla stessa velocità di un computer e, dato che non è possibile, finiscono in pasto ai social, imprigionati in una rete di slogan, di aforismi, di giochi di parole seducenti ma "niente-dicenti", di concetti superficiali. Per pensare, a qualunque età, serve tempo. Che accesso abbiamo, dunque, ai fatti presenti, al passato recente, alla storia remota? Come funziona la memoria? Funziona malissimo, da sempre. La memoria dell'uomo è una cosa farlocca, e la storia ha come oggetto qualcosa di probabilmente inconoscibile. L'avevano già capito nel Seicento gli Empiristi inglesi, ancora prima, nella Grecia classica, se n'erano approfittati i Sofisti: esiste quindi solo l'interpretazione, suscettibile della pratica poco nobile di cancellare fatti e dettagli in favore dei propri comodi.

 

 

E qui veniamo al nuovo libro di Paolo Mieli, La terapia dell'oblio - Contro gli eccessi della memoria (Mondadori, 292 pagine, 18 euro), un saggio prezioso sulle contraddizioni della memoria collettiva e sull'inaffidabilità di chi, di epoca in epoca, la gestisce. Paolo Mieli ha una cultura abbondante e rigonfia di dettagli, ed è una mente analitica capace di immagazzinare e restituire una smisurata quantità di fatti riorganizzandoli con un raziocinio angolato, a volte ispido tanta è la densità della scrittura. Ma la sua lettura "orizzontale" della storia è modernissima e spietata. Dunque, una delle contraddizioni più interessanti della natura umana è l'ossessione di ricordare tutto e l'incapacità di ricordare "bene". È la stessa criticità che ogni nazione deve affrontare: per avanzare deve rammentare e anche fare pace con il suo passato e lasciarselo alle spalle, cioè in qualche modo dimenticarsene. È un crinale affilato e l'Italia, dice Mieli, in questa pratica non è molto brava, in fondo nessuno lo è. L'oblio è indispensabile ma altresì pericoloso.

L'amnesia infatti, spiega Mieli, lavora in due sensi di marcia: selezionare ricordi e cancellarne altri è terapeutico affinché una civiltà possa avanzare o ricominciare; però può pure essere una pratica killer, che elimina sfumature e a volte i fatti per intero, che arbitrariamente glorifica o consegna alla dannazione della memoria personaggi, espunge o attribuisce colpe ad alcuni, nasconde viltà e incapacità di altri. Sfogliando il libro mi è parso che questo lavoro sia andato oltre le intenzioni dell'autore, è una collezione di eventi ed aneddoti avvincenti che spiegano, a chi voglia leggerne l'insieme al di sopra delle righe, quanto fragile e confusa sia la nostra identità come specie umana. Mieli ha raggruppato alcuni episodi storici controversi in tre tipologie: Curiose amnesie, La memoria riluttante, Dimenticanze sospette; più un'appendice sui «cospirazionisti e gli untori del discorso pubblico in tempo di pandemia». Vi cito degli esempi: un'estesa e minuziosa descrizione degli Stati Uniti, attraverso la politica militare in Somalia e in Afghanistan negli anni Novanta e Duemila, Paesi incapaci di distinguere fra la pace e il caos, che non sanno più fare la guerra ma la fanno lo stesso, con soldati poco disponibili a morire e strategie distruttive influenzate dai problemi interni del governo americano. Un altro caso che Mieli prende in esame è il destino di uno degli imperatori romani più controversi, Caracalla. Arrivato al potere dopo il primo sanguinario decennio del secondo secolo post Christum (di cui Mieli dà avvincente e sconfortante resoconto), Caracalla, come i suoi contemporanei, non era uno stinco di santo, ciononostante promulgò la Constitutio, che concedeva la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'impero. Non sappiamo se l'abbia fatto per somigliare ad Alessandro Magno, per il quale aveva una venerazione, o per allargare la platea dei contribuenti e dare respiro alle casse dello Stato; ma nei secoli immediatamente seguenti la Constitutio è stata attribuita dagli storici a chiunque tranne che a lui, che rimase congelato nell'immagine semplificata di tiranno irascibile e disumano. la resistenza E ancora: gli aspetti meno edificanti della Resistenza, tra rivalità fra bande, passaggi di militanti da una formazione a un'altra, polemiche e lotte finite nel sangue sulla destinazione degli aiuti paracadutati dagli americani, regolamenti di conti, gruppi minori di autonomisti riluttanti a entrare nel Cln, disordinate tregue con i tedeschi di talune brigate alle spalle delle altre. E anche un curioso momento storico, quando il sultano di Baghdad regalò a Carlo Magno un elefante. Doveva essere l'inizio di una relazione diplomatica con l'islam fortemente voluta dal sovrano, che però finì pressoché cancellata o relegata a "strano ma vero" poiché si riteneva sconveniente che il grande iniziatore dell'Europa guardasse con interesse al mondo musulmano: fino a spingere negli anni Trenta gli storici legati a Hitler a dichiarare che Carlo Magno «non era un vero tedesco».

Da sempre il rovello di come cogliere la verità dei fatti mi perseguita. Sovente mi sono trovato davanti a fatti che mi parevano insensati, a volte lo erano. Con la cronaca è già dura, ma la storia è peggio, non controlliamo quasi nulla della nostra esistenza, figurarsi quella degli altri e dei tempi lontani. Passiamo metà dei giorni a incassare e a reagire ai fatti che accadono, e l'altra metà a cercare di giustificarli. Balzac scrisse che i ricordi rendono la vita più bella e dimenticare la rende più sopportabile, ma credo che la frase più appropriata sia piuttosto «Calunniate, calunniate, qualcosa resterà». E - ci credete? - fra Plutarco, Bacon, Voltaire e una manata di altre celebrità, su chi l'abbia pronunciata gli studiosi non si sono mai messi d'accordo.

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