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Spese militari, Pietro Senaldi: la ritirata di Giuseppe Conte e del M5s per mancanza di truppe

 Giuseppe Conte

Pietro Senaldi
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Dalla pochette alla pochade il passo è breve, e Conte l'ha fatto tutto. Il capo dei grillini, ormai sedicente visto che non controlla i gruppi parlamentari ed è stato confermato leader da una sparuta minoranza di maniaci, finge di esultare perché il governo ha annunciato che aumenterà le spese militari progressivamente, da qui al 2028, e non tutte di un colpo. In realtà l'incremento graduale era già previsto e i tempi li ha decisi il premier Draghi e non l'avvocato Giuseppe, che trucca da vittoria una sconfitta.

 

Già, perché l'ex  presidente del Consiglio si era accorto dai sondaggi che molti italiani sono contrari all'invio di armi in Ucraina e più preoccupati dalla bolletta che dalla guerra; pertanto sognava di specularci sopra politicamente, opponendosi al rifinanziamento dell'industria bellica. Poiché lo stanziamento avverrà nel Documento di Programmazione Finanziaria, il leader M5S pensava di andare avanti mesi con la manfrina dei soldi da mettere in sussidi e prebende anziché nell'esercito, ma gli è andata male. Draghi ha minacciato la crisi di governo e Mattarella lo ha tirato per le orecchie, così Conte ha dovuto precipitosamente fare marcia indietro. I grillini infatti si sono subito spaventati che la cosa potesse finire con un tutti a casa e il leader ha dovuto cedere in tutta fretta e rappattumare un accordo di facciata con la maggioranza, per non perdere presa sui quattro gatti che ancora gli danno ascolto.

L'uomo è velleitario ma non sciocco. Sa bene che dalle primarie grilline di lunedì scorso è uscito malconcio. Primo perché l'ha incoronato meno del 50% dei votanti. Secondo perché ha preso settemila consensi meno della volta precedente. Terzo perché Toninelli, il non furbo del villaggio globale, ha preso giusto una manciata di preferenze meno di lui, che è un po' come se l'Italia perdesse dalla Macedonia a calcio, per rendere idea delle dimensioni del disastro. La resa quindi è stata rapida, come tutti si attendevano. C'è da capirlo. All'ex premier manca la forza per lanciare la sfida finale. La strada è chiara: il Movimento Cinque stelle è in emorragia costante. Chi lo ha votato per protesta o per curiosità, come quelli attirati e rassicurati dal Di Maio in giacca e cravatta, se ne è andato.

 

L'unica strada percorribile per arginare la frana è il ritorno alle origini, la rottura con i grillini di governo e la traversata nel deserto. Perfino Conte si è convinto che non tornerà mai più premier; tanto varrebbe giocarsela a carte scoperte, ma questo imporrebbe un cambio di copione. L'avvocato si era illuso di poter vivacchiare da socio di minoranza del Pd, poi ha scoperto che Di Maio come uomo di governo ha più stoffa e non è animato dai livori verso Draghi, Salvini, Renzi che invece annebbiano lui. La guerra era una buona opportunità per marcare le distanze e fare il salto, ma quando si è voltato Giuseppe ha scoperto di non avere spazio dietro di sé per la rincorsa, inteso come sufficienti parlamentari per alzare la voce, ha pensato che sarebbe rimasto solo con Fratoianni a sventolare la bandiera della pace e l'ha ripiegata prestamente.

 

Grave errore, perché ormai il dado era tratto, o meglio il danno era fatto. L'impuntatura dell'alleato non è piaciuta al Pd. Il segretario Letta si sta rendendo conto ogni giorno di più che il campo largo della sinistra sul quale contava per vincere le elezioni è minato e che M5S è una quinta colonna destabilizzante nello schieramento democratico. Si comincia a pensare che la guerra civile dentro il Movimento e dentro la sinistra potrebbe durare più dell'offensiva russa in Ucraina. E sono sempre di più, tra i democratici, quelli che si rendono conto che il problema in casa sulla guerra non ce l'ha il centrodestra con Salvini ma ce l'ha il Pd, e si chiama Conte. Quello dell'avvocato verso la sinistra non è più fuoco amico ma fuoco di sbarramento, per resistere all'abbraccio mortale dei dem. Il bacino elettorale d'altronde ormai è quasi lo stesso. Bene va a Letta che Conte è un tentenna, altrimenti non continuerebbe a prendere la via della separazione per poi tornare indietro a mani vuote.

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