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Giù le tasse sui buoni pasto: quanto aumenterebbe il reddito

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Matteo Legnani
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Un welfare aggiuntivo di pochi centesimi che però da luglio 2015 riguarderà oltre due milioni e mezzo di dipendenti: il governo (dopo quasi 20 anni di immobilismo), e su pressione delle società emettitrici che da settimane battono di nuovo su questo tasto, ha deciso di portare da 5,29 euro a 7 euro l'esenzione fiscale (e contributiva) dei buoni pasto elettronici. In sostanza, un emendamento mirato a rivalutare in parte il reddito dei lavoratori (firmato da Marco Causi, Pd), rientrerà nella Legge di stabilità per infilare oltre 200 euro (esentasse) nel 2015 e 400 dal 2016 nelle tasche di chi è così fortunato da avere ancora un posto di lavoro. L'esenzione fiscale costa, in mancato gettito per l'Erario, complessivamente circa 470 milioni l'anno (dossier Cariani). Aumentare questa “immunità fiscale”, però, potrebbe aiutare a rilanciare un po' i consumi. L'aumento della deduzione ai fini fiscali dei buoni pasto costerà nel 2015 9,6 milioni di euro, 24,1 milioni nel 2016 e 24,9 milioni nel 2017 da fondi del ministero dell'Economia. OpenEconomics (spin-off della facoltà di Economia dell'Università di Roma Tor Vergata), ha stimato l'impatto economico che un provvedimento del genere avrà. Il mercato dei buoni pasto in Italia ha un valore aggregato di circa 2,8 miliardi di euro, viene utilizzato normalmente (in modalità cartaceo o elettronica, tipo bancomat), da oltre 2,4 milioni di utenti. Più interessante l'eventuale impatto sulle casse pubbliche e gli effetti (economici e occupazionali), che un provvedimento del genere avrebbe sui consumi (che inesorabilmente continuano a scendere) e sulla capacità di spesa dei singoli. Secondo lo studio «un aumento del valore esentasse a 7 euro porterebbe il settore a rappresentare lo 0,90% del Pil con conseguente aumento di entrate fiscali». Insomma, se è vero che la deducibilità aumentata rosicchierebbe qualcosa all'erario, il fisco con una partita di giro (consumatore, esercente, maggiori tasse), incasserebbe di più. Un centinaio di milioni, se si tiene conto del costo stimato dalla commissione Ceriani (che ha analizzato con la tax expenditur tutte le agevolazioni e i mancati incassi), e da quello ipotizzato dagli addetti ai lavori (circa 570 milioni).  Se l'impatto occupazionale (se l'esenzione arriverà a 7 euro), porterebbe alla creazione di circa 8mila posti di lavoro in più, maggiore interesse suscita la certa tracciabilità di questo flusso di denaro. Oggi i buoni pasto non vengono utilizzati dai lavoratori solo per pagare parte del pasto, ma in maniera sempre più crescente anche per fare acquisti nei supermercati. Secondo stime del settore circa il 50% dei titolari di questa forma di salario aggiuntiva utilizza i ticket per fare acquisti al supermercato. Il problema è che tra pagamento alla cassa del supermercato ed effettivo incasso del valore del buono, passano spesso parecchi mesi (anche 8), e quindi solo le grandi catene possono continuare a incassare questa moneta sostitutiva, accettando anche di perdere giorni di interesse. Lamentela sui ritardi che accomuna anche i piccoli esercenti (bar e trattorie), che devono aspettare parecchi mesi per il primo bonifico da parte della società emittente. Ma in un periodo di calo continuo e inarrestabile dei consumi neppure i piccoli negozi (e tantomeno i grandi gruppi), possono permettersi di rinunciare ad una fetta di mercato da oltre 1 miliardo l'anno. In fondo è “solo” dal 1998 che il valore di un pasto fuori casa non viene aggiornato. E poi resterà soltanto da convincere le imprese a sganciare l'euro e 70 di maggiorazione giornaliera.  Magari Renzi e Padoan riescono ancora a mangiare un pasto con 5,29 euro (le vecchie 10 mila lire)... di Antonio Castro

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