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L'antisemitismo di Harvard fa scappare gli studenti: crollo storico delle iscrizioni

Giovanni Sallusti
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La bolla dell’antisemitismo liberal e altolocato non sta ancora scoppiando, ma inizia ad accartocciarsi su se stessa. Prendiamo una delle sue centrali, l’analogo di quello che potevano essere negli anni Trenta le birrerie di Monaco: l’università di Harvard.

La rettrice Claudine Gay si è dovuta dimettere un paio di mesi fa, dopo aver minimizzato di fronte al Congresso gli inni al genocidio degli ebrei andati in scena nel campus («Dipende dal contesto», era stata la risposta degna del dottor Goebbels). Molti studenti di origine ebraica hanno denunciato mediaticamente le discriminazioni e le aggressioni, qualcuno lo ha fatto anche penalmente muovendo causa all’ateneo, ad esempio Alexander Kestenbaum, che ha raccontato ieri la sua storia ai microfoni di Radio Libertà (il procedimento è alla Corte Distrettuale del Massachusetts, Harvard ha tempo fino al 14 aprile per inviare le sue contro-osservazioni). Molti storici finanziatori hanno bloccato le loro donazioni e non hanno nessuna intenzione di ripristinarle finché essere ebreo sarà un problema in uno dei massimi templi del sapere occidentale.

 


MENO STUDENTI - Infine, il dato sulle iscrizioni annunciato ieri dal New York Post. Pessimo: l’università bostoniana ha annunciato di aver ricevuto 54.008 domande per il corso del 2028, in calo del 5% rispetto all’anno precedente. Si tratta del minor numero di candidature pervenute dal 2020, anno dell’esplosione della pandemia Covid. La comunicazione dell’ateneo ha provato a girarla in positivo, sottolineando che per il quarto anno consecutivo le domande hanno superato il tetto delle 50mila, ma la tendenza è chiara. Per la prima volta dall’era delle chiusure forzate si deflette pesantemente: non tutta la borghesia americana è convinta che per i propri figli più talentuosi sia un ambiente ideale quello in cui ogni giorno si canticchia quotidianamente from the river to the sea, dal fiume Giordano al mare, ovvero si inneggia alla cancellazione di Israele dalla carta geografica, una cosa che fino a pochi anni fa con questa nonchalance si sentiva solo alle adunate dei pasdaran della Rivoluzione Islamica in Iran.

Anche i rimedi (ma sarebbe più consono dire palliativi) escogitati non hanno evidentemente convinto moltissimo. All’indomani delle dimissioni della Gay, il rettore pro tempore Alan Garber aveva annunciato la creazione di due gruppi di lavoro: uno focalizzato sul contrasto all’antisemitismo, l’altro sulla lotta ai pregiudizi anti-musulmani e anti-arabi. Un grottesco bilancino (pseudo)culturale, spiegabile solo con quella che il grande sociologo Allan Bloom chiamava «la chiusura della mente americana».

COMPENSAZIONE - L’ossessione relativista e multiculti a non irritare mai l’Altro, a blandire costantemente le minoranze-totem del politicamente corretto, che non a caso per Bloom aveva nei campus il proprio luogo d’elezione: «Oggi nelle università c’è poca voglia di proteggere chi si è guadagnato l’ira di movimenti radicali». E se proprio bisogna dare l’idea di farlo, occorre subito compensare con un gruppo di lavoro a favore di chi, invece, ripete proprio le parole d’ordine di quei movimenti.

 

 

Non è un’esagerazione: all’indomani della mattanza del 7 ottobre, non una, non due, ma trentaquattro associazioni studentesche di Harvard firmarono una lettera che pareva un caso patologico di humor nero, dove si definiva il regime israeliano «interamente responsabile delle violenze in corso», a causa dell’«occupazione instancabile di Gaza» (da cui Ariel Sharon si era totalmente ritirato nel 2005) e del «regime di apartheid in Palestina». Le autorità accademiche non solo non si dissociarono, ma diedero oggettivamente sponda a questo delirio che pareva preso di peso dai Protocolli dei Savi di Sion (tutto è colpa degli ebrei, compreso la persecuzione degli ebrei), fino all’imbarazzante audizione della rettrice al Congresso.

Insomma, tutta questa cronistoria pazzotica concentrata negli ultimissimi mesi non è passata indenne, ha scavato fossati anche dentro l’America democratica e cosmopolita che abitualmente fa a gara per mandare i propri pargoli ad Harvard. Gente che magari schifa Donald Trump, ma che ha troppa consuetudine con i privilegi del mondo libero per iscrivere a cuor leggero i figli in un luogo dove i loro coetanei paiono diventati una filiale fighetta di Hamas. Al di qua dell’oceano, rimbalza una domanda: chissà se avrà un calo di matricole anche la Scuola Normale di Pisa, che ieri ha chiesto ufficialmente al Ministero degli Esteri di bloccare il bando di cooperazione scientifica con Israele. Nel caso, sarebbe difficile definirla una brutta notizia.
 

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