Da ieri a McLeod Ganj, il sobborgo di Dharamsala abbarbicato sulle montagne dell’Himachal Pradesh indiano, dove già si sente profumo di Himalaya, è festa grande. Sono iniziate le celebrazioni che il 6 luglio culmineranno nei riti per il 90° genetliaco del Buddha vivente, incarnazione di Avalokitesvara, il bodhisattva della compassione: cioè Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, l’autorità suprema della scuola Geluk del buddismo tibetano, la più influente, ma di fatto il padre della patria e il leader morale riconosciuto praticamente da tutti i tibetani. Vive in esilio lì dal 1959, quando sfuggì agli invasori cinesi comunisti del Tibet a 23 anni, marciando con una ventina di compagni, anche armati, per una quindicina di giorni lungo circa 300 aspri chilometri. La data più attesa è però il 2 luglio, quando il Dalai Lama dovrebbe rivelare se si reincarnerà per dare futuro al Tibet.
Il cuore del buddismo tibetano è infatti il sistema dei tulku, la reincarnazione dei rappresentanti di una specifica linea spirituale. Chi controlla il sistema, controlla la religione tibetana, e chi ne controlla la religione, controlla davvero il Tibet. Il Partito Comunista Cinese lo sa benissimo, e da che prese il potere in Cina nel 1949, ha sempre prestato attenzione alle reincarnazioni, arrivando sino a emanare il bizzarro Ordine n. 5 del 2007 che garantisce il permesso per reincarnarsi solo ai lama graditi al regime. Il Dalai Lama lancia messaggi chiari da anni. Ma a far sobbalzare Xi Jinping è stata la chiarezza con cui nel libro Una voce per chi non ha voce, pubblicato da HarperCollins anche in italiano nel marzo di quest’anno, il Dalai Lama ha detto che, se anche si verificasse, comunque la sua reincarnazione avverrebbe nel mondo libero, non nel Tibet occupato e controllato dai comunisti cinesi. Ovvio che i riflettori siano dunque tutti puntati sul 2 luglio, quando, come ha spiegato Penpa Tsering, il sikyong, ovvero il capo del governo tibetano in esilio, il Dalai Lama si riunirà con i principali lama anziani (dovrebbero essere nove), preludendo a un incontro di natura religiosa e pubblico che si aprirà con un suo videomessaggio. Il momento dell’annuncio potrebbe essere quello. Ma il Partito Comunista Cinese non se ne sta certo con le mani in mano. A disposizione ha persino un’antica disputa teologica, poco nota oltre la cerchia degli specialisti.
Ruota attorno allo spirito Dorje Shugden, il bellicoso e feroce Protettore del Dharma (la legge cosmica, naturale, che si può far equivalere al concetto occidentale di religione), venerato particolarmente nella scuola Geluk. Lo stesso Dalai Lama ne ha praticato il culto per decenni, salvo poi giungere a percepirlo, attraverso premonizioni, sogni e segni, come una presenza nefasta, una divinità demoniaca votata alla distruzione sua e del Tibet. Così nel 1975, dopo avere consultato Nechung, il più potente oracolo tibetano, ne ha proibito il culto, bandendolo ufficialmente nel 1996. Per i seguaci “tradizionalisti” di Shugden il XIV Dalai Lama è divenuto quindi un traditore e la vicenda si è persino tinta del sangue di alcuni omicidi. Di indubbio interesse per gli studiosi, questa controversia potrebbe insomma essere abilmente sfruttata oggi da Pechino.
Del resto su tutto incombe il precedente di Gedhun Choekyi Nyima, l’11° Panchen Lama, cioè il n. 2 della gerarchia spirituale della scuola Geluk, sparito nel nulla a 6 anni. Il XIV Dalai Lama riconobbe in quel bimbo la reincarnazione del precedente Panchen Lama il 14 maggio 1995 e subito dopo il piccolo fu rapito con l’intera famiglia, mentre al suo posto il regime comunista intronizzava un sostituto fasullo. Ogni anno, a ogni anniversario, i tibetani ne chiedono conto ai cinesi, ma oggi lo spettro della sua vicenda riprende forma nelle parole pronunciate dalla portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Mao Ning, all’indomani della pubblicazione del libro-testamento del Dalai Lama. Usando spocchiosamente la denominazione imposta che il regime cinese adopera per il Tibet, «Xizang», in una conferenza stampa dell’11 marzo 2025, Mao Ning ha detto che «il 14° Dalai Lama è un esiliato politico impegnato in attività separatistiche sotto le spoglie della religione. Non ha assolutamente alcun diritto di rappresentare il popolo di Xizang».