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Giustizia, i ministri grillini pronti alle dimissioni per una riforma approvata da loro in Cdm

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Prima che politico, il problema è di carattere: riguarda il coraggio. L’8luglio, dinanzi alla riforma della giustizia scritta da Marta Cartabia dopo aver mediato con i partiti, alla domanda di Mario Draghi se quel testo andasse bene a tutti i presenti, Fabiana Dadone, Luigi Di Maio, Federico D'Incà e Stefano Patuanelli, ossia i quattro ministri del M5S, lo approvarono silenti. Si sa com' è andata. Giovedì scorso, Draghi ha annunciato che intende mettere la fiducia sul testo di quella riforma, o su una versione molto simile, sottoposta a «limitate modifiche tecniche condivise da tutti». Si rivolge ai ministri, con particolare attenzione a quei quattro, tutti presenti: «Ci sono obiezioni?».

Nessuno fiata, la proposta passa all'unanimità. E poi ieri mattina la 37enne Dadone, di professione ministro per le Politiche giovanili (non pervenute, peraltro), fa sapere di non escludere affatto le dimissioni sue e degli altri tre pentastellati dal governo. «È una cosa da valutare insieme a Giuseppe Conte», avverte. Spiega che tutto dipende da «quale sarà l'apertura sulle modifiche tecniche» al testo che lei stessa aveva approvato. «Ci aspettiamo una discussione costruttiva, vedremo le decisioni da prendere». Il M5S che punta i piedi e detta le condizioni. Facile la battuta di Matteo Salvini: «Se ne vanno? Ma magari. In Italia non penso ci sarebbero manifestazioni di disperazione nelle piazze». 

 

 

 

Sarebbe sbagliato, però, dire che è tutta una recita e che i primi a non aver voglia di mollare le poltrone sono proprio i Cinque Stelle, perché la storia non è così semplice. Un ruolo importante lo hanno anche i loro parlamentari che non vantano titoli da ministro o altri incarichi, e sono stanchi di portare acqua ad un governo in cui non si riconoscono. C'è Giuseppe Conte che sull'opposizione a Draghi vuole ritagliarsi un ruolo da leader nazionale. C'è il Fatto quotidiano di Marco Travaglio che li spinge alla rivolta contro la «schiforma penale». C'è uno zoccolo duro di elettori che sogna il ritorno del movimento alla purezza antica. E c'è, tra dieci giorni, il semestre bianco nel quale le Camere non potranno essere sciolte, e dunque si potrà fare qualunque cosa senza temere per lo scranno in parlamento, almeno sino a febbraio.

Così lascia il tempo che trova anche la scontatissima retromarcia in cui la Dadone si esibisce dopo qualche ora (e dopo diverse telefonate con gli altri ministri, e dopo che nella chat interna dei governisti del M5S scoppia il finimondo e i colleghi le domandano: «Ma sei impazzita?»). Lei torna pubblicamente sulla questione per assicurare che «c'è una chiara apertura del presidente Draghi e della ministra Cartabia di cui va preso atto. Non è nel mio stile minacciare. È nel nostro stile dialogare e confrontarci. Lo stanno facendo Draghi e Conte, che sono due persone di alto profilo, e sono certa troveranno punti di incontro». Come se Draghi riconoscesse a Conte un ruolo da interlocutore alla pari, insomma, versione che l'ex prova ad avvalorare: «La mediazione? Ci stiamo lavorando».

Di Maio e Patuanelli garantiscono ai ministri degli altri partiti, subito insorti, e ai vertici del Pd, terrorizzati, che la ragazza è stata fraintesa, e in ogni caso la loro uscita dal governo è un'ipotesi non contemplata. Concetto che il ministro degli Esteri ribadisce in serata: «In questo momento non ci possiamo permettere di giocare con la stabilità di una nazione che deve spendere in tre anni 230 miliardi del Recovery Fund». Ma questa è la versione da recapitare a Draghi. La verità, raccontano i pochi che hanno voglia di parlare, è che dietro all'"avvertimento" della Dadone c'è la regia di Conte, che prova così a dare i primi colpi all'esecutivo.

 

 

 

Le due anime interne al M5S che tornano a sfidarsi, i ribelli contiani contro i governisti legati a Beppe Grillo, a conferma di quanto possa valere l'accordo raggiunto tra i due a Marina di Bibbona. Prove tecniche in vista di ciò che potrà accadere nei prossimi mesi. Anche perché, mentre succedeva tutto questo, un altro deputato usciva dalla maggioranza, ed è proprio uno dei loro. Si chiama Giovanni Vianello e ieri mattina ha votato contro la fiducia sul decreto Semplificazioni, schierandosi con l'opposizione. «Non posso dare il mio voto favorevole a queste nefandezze, tantomeno il mio sostegno ad un governo che le promuove», ha proclamato. Dovrebbe essere espulso dal M5S, ma difficilmente accadrà. Non subito, almeno. I suoi colleghi alla Camera avvertono che ce ne sono almeno altri trenta pronti a seguirlo sulla riforma della giustizia, se Draghi e Cartabia non la riscriveranno come dicono loro. C'è meno di una settimana, il testo è atteso in aula il 30 luglio. 

 

 

 

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