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Dita mozzate, Madonne distrutte, Sharia: la città italiana dove governa l'islam

Andrea Tempestini
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Appena ti fermi a parlare con Nabil, marocchino senza permesso di soggiorno con un paio di ordini di espulsione sulle spalle (ovviamente non rispettati), chissà perché un tizio dall'altro lato della strada prende il telefonino e chiama. Facile intuirlo: lui sta lì a far da sentinella a uno degli ingressi del «Selestan», neo-ribattezzata area a sud di Salerno, nella sconfinata Piana del Sele di Eboli. Sì, proprio dove s'è fermato Cristo ma dove Allah qualcosa da dire sembra ce l'abbia. Fracassando statue della Madonna di Lourdes al grido di «maledetti cristiani», per esempio, com'è successo non più tardi di quindici giorni fa, per opera di un immigrato musulmano che s'è anche premurato di girare verso est, in direzione della Mecca, la statua di Santa Bernadette. Ne è seguito uno scontro con la popolazione locale, infastidita dal raid islamico, con parroci, comitati di quartiere e qualche «imam» a tentare di attenuare un fuoco sempre pronto a riaccendersi sotto la cenere. Non piace molto ammetterlo ma è così, l'ordine pubblico è solo uno dei problemi legati alla concentrazione islamica in un territorio come questo, che ha un tasso di immigrazione di circa l'11%, il più alto della Campania (dopo la casertana Sessa Aurunca). Eboli conta meno di 40mila residenti, gli immigrati sono oltre cinquemila, tanto per capirci. Ghetti urbani non ce ne sono (tranne uno nuovo in formazione nel centro storico della città), c'è invece la versione «rurale» del fenomeno che osserviamo nel Paese. In queste terre di antichissima matrice magno-greca e cristiana, si ha notizia del passaggio e del saltuario stazionamento di elementi legati al fondamentalismo islamico già prima dell'11 settembre 2001. Nell'inverno di quell'anno due rapporti dei servizi segreti segnalavano il transito di tre membri di al-Jamaa al-Islamiyya al-Musallaha, il famigerato Gis (Gruppo islamico armato) algerino, sgozzatori seriali di interi villaggi. Durante un'operazione coperta insieme ai carabinieri, due algerini vennero bloccati, portati in caserma e interrogati a lungo, senza ottenerne molto. L'eco della stringente omertà ancora risuona nell'aria e nel rammaricato racconto che ne fecero a chi scrive i protagonisti dell'epoca. Dopo 15 anni è cambiata solo la collocazione geografica, l'ultimo blitz delle forze dell'ordine di cui si abbia notizia ufficiale risale al gennaio dello scorso anno, con rastrellamenti e controlli a tappeto. Prima c'era un'ex centrale ortofrutticola (San Nicola Varco) abbandonata che conteneva l'inimmaginabile, con dentro circa mille tra algerini, tunisini e marocchini, ognuno con una storia alle spalle, in larga parte «vittime della globalizzazione», ma non solo: oggi hanno colonizzato poco meno di dieci chilometri quadrati sulla litoranea di Eboli, a qualche decina di metri dal mare. La Molenbeek indigena, dove ieri Libero è andato a farsi un giro (per quanto possibile), non contempla la via cittadina con insegne arabe a iosa, fritto e kebab nell'aria, narghilè e sala tè ogni tre negozi: qui è il rovescio della medaglia, vedi un'enclave rurale con immigrati musulmani (in larga parte maghrebini) concentrati per etnie, collocati in un'area sostanzialmente sottratta al controllo pubblico, con la possibilità di disseminarsi in case, casupole, ex villette e baracche, dal limite stradale per centinaia di metri verso l'interno. Un dedalo di stradine sconnesse e un panorama di parabole satellitari sullo sfondo ti regalano l'immagine standard degli agglomerati mediorientali. Là dentro c'è di tutto, disperazione e sopraffazione: come c'è stato e c'è nelle forme che abbiamo visto dalle altri parti del Paese. Quando Libero è entrato in una delle traverse poco oltre le rivendite alimentari halal, dove campeggia l'immancabile kebab, non c'era molta gente, almeno non tanta quanta ne staziona normalmente. Nabil ci spiega che è venerdì e molti pregano. Dove? «Là, dietro quella casa coperta dall'albero, vanno e vengono». La moschea, chiamiamola così, non riusciamo a raggiungerla però: tre tizi imprecano al nostro indirizzo, Nabil si gira e si incammina verso l'uscita. Si batte in ritirata. Sembra passato un secolo ma erano i primi anni del Duemila quando Kamel, all'epoca trentatreenne di Beni Mellal (vicino Casablanca) incarnò uno dei primi casi di sharia di cui si ebbe notizia in Italia (Libero ne scrisse): in un frangente rimasto ancora misterioso, all'uomo vennero amputate le dita di una mano. Non denunciò i suoi aguzzini, poi sparì. Il «Selestan» è diventato così da quando un'amministrazione locale guidata da Rifondazione Comunista decise di bonificare l'area dalle villette estive abusive degli italiani, 20 anni fa: in parte abbattute, al loro posto 8 chilometri di costa fino a Paestum fuori controllo. Il sindaco da meno di un anno è di centrodestra, si chiama Massimo Cariello. Parlando con Libero dice: «Noi lavoriamo su un doppio binario: accoglienza e programmi di integrazione ma regole ferree da rispettare. Almeno per le parti che ci competono, l'ordine pubblico non lo gestiamo noi». Risalendo verso l'area urbana incroci poi una fila di trattori che trasportano le donne di campagna verso la processione del Venerdì Santo, quello cattolico: tutte anziane, o giù di lì. Anni luce dal pullulare di bambini e giovani del Selestan appena lasciato. Una sfida perduta in partenza. di Peppe Rinaldi

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