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Coronavirus, l'immunologo Le Foche: "Quadro clinico dei pazienti non paragonabile a quello di marzo. Dopo l'inverno, il vaccino"

Alessandro Gonzato
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«Il Centro-Sud, a differenza di alcune aree del Nord, penso alla Bergamasca e al Bresciano, sta pagando l'assenza di anticorpi nella popolazione: fino a qualche settimana fa in Lazio e Campania il virus era arrivato solo marginalmente, i contagi erano pochissimi. Poi le vacanze, la ripresa delle attività lavorative e gli spostamenti tra una regione e l'altra hanno inevitabilmente rimescolato le carte. In mezza Italia la positività crescerà ancora, è normale, bisogna tenere alta la guardia, ma non spaventarsi: molti contagi provocano una malattia lieve, nulla di più, e spesso la carica virale è talmente bassa che una persona positiva non è in grado di infettare». Il professor Francesco Le Foche, immunologo clinico, responsabile del Day hospital di Immunoinfettivologia del Policlinico Umberto I di Roma, va dritto al punto: «Oggi, di fronte al quadro clinico dei pazienti, che non è minimamente paragonabile a quello di marzo, la quarantena di due settimane non ha senso. Va ridotta a 7 giorni, al massimo a 10: si fa un tampone di controllo e in caso di negatività si ricomincia a uscire e a lavorare».

 

 

Professore: da giorni ormai molti quotidiani e talk show parlano di «contagio fuori controllo».
«Non è corretto. D'altronde basta leggere i dati di tanti altri Paesi per rendersene conto. Cito solo Francia, Spagna e Inghilterra, che giornalmente hanno il triplo dei nostri casi. L'Italia è quasi al livello della Germania. Abbiamo reagito bene alla pandemia e stiamo continuando a farlo».

Eppure alcuni governatori pensano di richiudere le regioni. Comincia anche a farsi strada l'ipotesi di un nuovo lockdown nazionale...
«Non ce n'è bisogno e non sarebbe una decisione scientificamente logica. Così come non è serio mettere in circolazione queste notizie o rilasciare dichiarazioni allarmistiche: così si spaventa solo la gente. Si dovrebbe parlare d'altro, di cose davvero serie, di ricerche e terapie che nel giro di qualche mese permetteranno alla scienza di mettere all'angolo il virus».

A cosa si riferisce?
«Ad esempio al Nobel appena assegnato a due scienziate, una americana l'altra francese, che hanno scoperto una tecnica rivoluzionaria di "taglia e cuci" del Dna. Permetterà di curare moltissime malattie genetiche. Da noi si parla solo di tamponi, di isolamenti, di tracciamenti dei contatti, che sono aspetti importantissimi, è evidente, ma nessuno si concentra sugli anticorpi monoclonali che assieme al vaccino entro la prossima primavera cancelleranno la pandemia».

Si spieghi.
«Gli anticorpi monoclonali sono nati nel '75 grazie a una tecnica di ibridizzazione che consiste nell'incrocio di una cellula "b" rimossa dalla milza di topo e una cellula tumorale: ciò produce un ibridoma capace di generare anticorpi tutti uguali. Questo ha rivoluzionato le terapie immunologiche: i monoclonali curano leucemie, sono fondamentali in oncologia, nel trattamento delle malattie infiammatorie del grosso intestino. Nel caso specifico l'anticorpo monoclonale è un killer del Covid, si lega alla proteina "spike" e neutralizza il virus, che non riesce più a entrare nelle cellule: 48-72 ore dopo l'iniezione nel paziente il quadro clinico cambia completamente».

Sembra un vaccino...
«No, perché i monoclonali hanno una copertura di un paio di mesi, varia da persona a persona. Poi la differenza è che questa iniezione non serve a produrre anticorpi: gli anticorpi ci sono già».

Quando inizieranno a essere somministrati?
«Credo tra gennaio e febbraio. Si comincerà dai medici e dagli infermieri. Negli Stati Uniti stanno sperimentando la tecnica in almeno cinque centri di ricerca. In Italia se ne sta occupando anche lo "Spallanzani"».

E il vaccino quando arriverà? Se n'è parlato a lungo, le informazioni sono contrastanti, tanta gente sta perdendo la speranza.
«Tra marzo e aprile. Penso che ne avremo a disposizione di tre tipi: quello americano, quello russo e quello cinese. Mi sento di dire che la pandemia, almeno per come l'abbiamo conosciuta finora, non durerà ancora molto. I monoclonali e il vaccino cambieranno la storia».

A Roma ci sono file chilometriche per sottoporsi al tampone ai "drive-in".
«Purtroppo non solo a Roma. Non è civile aspettare 9-10 ore. Conosco gente che dopo mezza giornata d'attesa era sfinita, ha girato la macchina ed è tornata a casa. I tamponi dovrebbero essere più mirati e soprattutto rapidi: bisogna utilizzare il test che in 10-15 minuti dà la risposta: solo così si può a isolare i malati in tempo utile. Non è possibile tamponare la popolazione a tappeto: bisogna calibrare meglio i controlli».

Il professor Roberto Rigoli, coordinatore delle microbiologie del Veneto, ha detto a Libero che spesso per trovare traccia del virus dopo il tampone bisogna amplificare 30-35 il genoma virale e che non è corretto classificare queste persone come positive, perché non sono in grado di trasmettere il Covid. È d'accordo?
«Certo. Va detto che non tutti i laboratori indagano così a fondo, ma i protocolli andrebbero aggiornati e rivisti».

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