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Covid, più il virus circola e meno uccide: cosa dice la matematica

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Claudia Osmetti
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E chi l'avrebbe detto che, alla fine, ci avrebbe salvato la matematica? «In un virus capace di provocare infezioni acute, più la sua contagiosità è alta e più si abbassa la letalità». È una relazione inversamente proporzionale, un po' come i piatti della bilancia: quando sale uno, scende l'altro. A scoprire questa correlazione (e a rinchiuderla in una formula che, tanto è semplice, sembra uscita da una lezione di algebra del liceo) è il team di Microbiologia dell'università di Padova guidato dal virologo Giorgio Palù, l'attuale presidente dell'Aifa (l'Agenzia italiana del farmaco). Palù e i suoi hanno appena pubblicato uno studio sulla rivista scientifica Computational and structural biotechnology journal che, al di là dei cavilli tecnici (ma poi ci arriviamo), apre le strade a un concetto che ci tocca fin troppo da vicino. Perché la sua conclusione è che il Covid è destinato a fare sempre meno morti, sempre meno vittime, quindi sempre meno paura. Sta tutto lì: nelle tabelle, nelle cifre, nelle corrispondenze di un'equazione che non s' era mai vista prima e che fa rima, allo stesso tempo, con rivoluzione e normalizzazione.

 

 

 

Nel primo caso perché è una scoperta non di poco conto, capace di cambiare l'approccio che abbiamo sempre tenuto di fronte alle pandemie. Nel secondo perché certifica che questo "benedetto" (si fa per dire) sars-cov2 sta scivolando, e per davvero, in una fase endemica. Non è mica un'impressione. Palù, assieme a Francesco Roggero e Arianna Calistri, scrive infatti che «l'evoluzione della pandemia di Covid-19 prevede una relazione inversa tra infettività e letalità». Si tratta di due parametri che «sono guidati da un continuo processo di mutazione, il quale garantisce al virus un vantaggio di sopravvivenza rispetto alla sua stessa virulenza». E significa, in termini terra terra, che se la letalità di Delta era 1,1 con un tasso di contagiosità (quel famoso R con 0 che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi due anni e mezzo) di sette; oggi, con Omicron, ci ritroviamo una trasmissibilità raddoppiata (quattordici) e una virulenza quasi dimezzata (0,6). Gli autori hanno dato un nome a questa corrispondenza: "costante k". Sorpresa: la "costante k" si replica, papale papale, in ogni virus che nell'ultimo periodo si è reso responsabile di una pandemia o di una epidemia. Da ebola al morbillo, su su fino all'influenza stagionale. La "costante k" di Delta è 5,39; quella di Omicron 5,04; per il morbillo del 2014 è di dodici; per l'ebola registrata in Sierra Leone di 120; il ceppo influenzale H3n2 (quello attuale) arriva a 0,21.

 

 

 

L'AUTOCONSERVAZIONE

«Sarà molto importante tenere a mente questo dato», spiega Palù, «perché più è alta la costante più il virus che stiamo trattando è pericoloso. Tra l'altro è un paradigma che si riflette nel principio dell'evoluzione di Darwin» e, signori, stiamo proprio dicendo che un virus si evolve nel tempo non con lo scopo di fare più sfaceli possibili, ma «per rispondere all'esigenza di conservarsi, essendo un parassita obbligato delle nostre cellule, anche se ciò implica un venir meno della sua virulenza, cioè dell'espressione attuale della sua patogoenicità». Banalissimamente: i virus (e in testa il coronavirus) non cambiano, mutano e si modificano per costringerci a riempiere le terapie intensive. Non converrebbe nemmeno a loro: se l'umanità fosse sterminata, smetterebbero di circolare. Invece cambiano, mutano e si modificano proprio per continuare a esistere.

«Da questo punto di vista», continua Palù, «l'evoluzione del sars-cov2, che è responsabile dell'attuale sindrome Covid-19, si sta trasformando in forme più "benigne". La "costante k" del Covid è molto meno alta di quella dell'ebola, ma non così ridotta come quella dell'influenza». A cosa è dovuto? Ai vaccini fatti in massa, certo. Al fatto che oggi, nell'ottobre del 2022, disponiamo di cure e protocolli e antivirali e monoclonali e una serie di armi di protezione che solo due anni faci sembravano fantascienza, certo pure questo. Ma anche «alla tendenza del virus di evolvere nella maniera che gli permette di sopravvivere, che è la stessa che lo rende più contagioso a spese della sua stessa letalità». D'accordo, lo studio dell'università è solo il primo e la sua tesi dovrà essere valutata, si spera in tempi celeri, da altre analisi condotte sul campo con i virus che danno infezioni acute. Però, quella "costante k", è un ottimo punto di partenza. Ed è la spiegazione (medica e matematica) del perché oggi i reparti di intensiva sono perfettamente gestibili (chiedere a un qualsiasi dirigente medico per conferma), mentre nel 2020, con un indice di contagio che era addirittura inferiore rispetto all'attuale, ospedali e cliniche si trovavano in affanno. Dopodiché intendiamoci: hanno perfettamente ragione quelli che, come l'Ema, l'Agenzia europea dei medicinali, ci ricordano che la pandemia non è finita e che l'errore più grandi di tutti sarebbe prenderla (di nuovo) sottogamba. Però, ecco: raccontiamoci anche le buone notizie, quando ci sono. Altrimenti è la fine. 

 

 

 

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