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8 settembre 1943, quando muore la Patria e nasce la democrazia

Francesco Carella
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L’8 settembre 1943 si consumò definitivamente la rottura fra la monarchia e l’Italia. La sera di ottant’anni fa con l’annuncio dell’armistizio fatto da Badoglio via radio le strade degli italiani e quelle di Vittorio Emanuele III prendono direzioni opposte. A ciò si arrivò dopo che per quarantacinque giorni (dalla notte del 25 luglio durante la quale il Gran Consiglio sfiducia Mussolini) il governo del Maresciallo condusse una sgangherata e confusa trattativa con gli anglo-americani al fine di ottenere qualcosa in più rispetto a una resa disonorevole.

La realtà era tutt’altra cosa. Infatti, “l’armistizio impose la resa incondizionata - scrive lo storico Roberto Chiarini in Le origini dell’Italia repubblicana assestando un colpo mortale ad ogni ambizione dell’Italia di riservarsi per il futuro un qualsiasi ruolo se non militare almeno politico. Il che suggella il completo fallimento di una intera classe dirigente con in testa la monarchia. Crollano, così, le ultime vestigia dell’autorità statale». Del resto, che la classe dirigente non fosse all’altezza del compito che quelle drammatiche giornate richiedevano lo dimostra il comportamento tenuto nelle ore successive alla firma dell’armistizio. Il re e il capo del governo inviano ai connazionali per mezzo della radio un ambiguo comunicato in cui annunciano che «le forze italiane di ogni luogo hanno l’ordine di reagire ad eventuali attacchi di qualsiasi provenienza».

Dopodiché lasciano Roma in fretta e furia, abbandonando gli italiani al proprio destino nel momento in cui, come era prevedibile, scatta il già previsto piano di occupazione tedesca. In tal modo, Vittorio Emanuele III non solo pone le basi per un difficile recupero di credibilità a guerra conclusa, ma disvela la profonda irresponsabilità della monarchia palesemente collusa fino alla fine con il fascismo.

Ciò che accade a partire dal 9 settembre fu la “morte della patria” segnata da una popolazione civile alla mercé degli occupanti, dal crollo di ogni residua entità statale e da un esercito totalmente allo sbando. Molti militari privi di guida e nel caos generale cercano disperatamente di raggiungere le proprie famiglie, mentre in seicentomila vengono deportati in Germania. L’Italia è un Paese spaccato in due. Al Sud cerca la continuità il vecchio Stato con il governo Badoglio, mentre al Nord viene fatto resuscitare il fascismo con la nascita della Repubblica sociale. In realtà, il potere di assumere decisioni importanti è nelle mani degli occupanti i quali si riservano l’ultima parola su ogni atto dei governi ufficiali. Nel caso del governo Badoglio una tale supervisione viene sancita in un documento ufficiale, “l’armistizio lungo”, con il quale «ogni attribuzione di qualsiasi rilevanza viene riservata agli Alleati». Modalità non dissimili sono quelle seguite nella Repubblica sociale là dove non si muove foglia senza l’approvazione del generale delle SS Karl Wolff. Scrive il sopracitato Roberto Chiarini che «l’Italia, forse come nessun altro Paese d’Europa, diventa la rappresentazione simbolica delle due opzioni di civiltà (fascismo/antifascismo) che si sono date battaglia sul teatro del Secondo conflitto mondiale». Alla “morte della patria” seguirà la democrazia. 

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