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Filippo Turetta, i suoi pensieri durante il funerale di Giulia

Giordano Tedoldi
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 Tra i diritti dei detenuti c’è quello di poter vedere la televisione. Filippo Turetta, nel carcere di Verona, chiuso in una cella con un altro detenuto di mezz’età che, in accordo con la direzione, ha l’incarico di sorvegliarlo per evitare che commetta gesti inconsulti, potrà dunque assistere, oggi, al funerale di Giulia Cecchettin, che si terrà alle 11 nella basilica di santa Giustina a Padova. Potrà e, presumibilmente, vorrà. Le esequie verranno trasmesse sia dalla Rai che da Mediaset. Quali saranno i pensieri che scorreranno nella mente di un ragazzo di ventidue anni che osserva la cerimonia funebre della sua ex fidanzata, da lui uccisa a coltellate?

Le cronache riferiscono che, dalle prime dichiarazioni, Turetta si dice pentito, chiede perdono e non spiega il suo gesto omicida in altro modo che con un accesso di follia. Difficile discernere quanto vi sia di sincero, quanto di soppesato in linea con la strategia difensiva, quanto di menzognero. Quel che è certo, è che i pensieri di Filippo, chiuso nel carcere di Verona, mentre guarderà i funerali di Giulia, saranno i suoi veri pensieri, quelli prima ignoti anche a lui stesso, e che difficilmente, anzi, mai affioreranno in forma verbale. Pensieri, sentimenti che compongono una personalità che, nel giorno dell’omicidio, è esplosa come un ordigno uccidendo con una delle sue schegge la ragazza dalla quale, affermava, non poteva separarsi.

 

 

 

Eccola, sullo schermo della televisione, spoglia esanime, simulacro di pixel circondato dal lugubre pianto dei suoi cari, Giulia. Turetta, seguendo il funerale, forse intuirà la sconvolgente distanza tra il suo amore possessivo e distruttore, e l’amore della folla che, nella basilica sull’ampia piazza di Prato della Valle, antistante il luogo di culto, circonderà per l’ultima volta, perlomeno in forma pubblica e rituale, Giulia Cecchettin. Turetta potrà misurarlo, e rendersi conto per la prima volta che cosa voglia dire amare un essere umano, onorarlo in vita come in morte per la sua sacralità: e non c’è bisogno di essere seguaci di qualche religione istituzionale per cogliere questo connotato sacro. Vedendo l’amore del padre, della sorella, della comunità del suo paese, e sentendo la commozione di un intero popolo, e verosimilmente anche l’indignazione e la rabbia, forse sottaciute ma certamente presenti, forse Filippo proverà ribrezzo, vergogna per quel sentimento immaturo e avvelenato che lui pure, non venendogli alla bocca altri termini, ha chiamato amore verso Giulia. Il detenuto che condivide la cella con lui potrà osservarne le reazioni; se resterà pietrificato, sconvolto, o se piangerà, se crollerà in singhiozzi, o chissà quale altra espressione prenderà il controllo.

 

 

 

Turetta vedrà anche l’abisso che, con il suo atto scellerato, ha spalancato tra sé e tutte quelle persone che si ritroveranno nella basilica di Santa Giustina. Un abisso tra sé, assassino ma non solo assassino - perché nessuno uomo ha soltanto una faccia, una dimensione; nessun uomo coincide totalmente con un suo gesto per quanto fatale -, e tutti gli altri uomini. Nella differenziazione anche semplicemente spaziale e fisica: lui costretto in carcere, gli altri in un solenne luogo di culto e poi nella distesa della piazza, Turetta, forse (siamo costretti a rimanere sempre nella forma dubitativa), sentirà per la prima volta, acutamente, l’immane catastrofe che ha procurato a Giulia e a se stesso. Se prima, lasciato da lei, si sentiva solo e disperato, quella solitudine e disperazione saranno niente a confronto della solitudine e la disperazione del suo essere spettatore, detenuto, del funerale della sua ex fidanzata. Spettatore, si capisce, e parte in causa.

 

 

 

Lui è l’assassino, lui è il carnefice, e ogni singolo istante del funerale che il suo occhio scruterà, glielo accennerà, glielo ricorderà, anche quei momenti che, con lui, sembrerebbero non avere niente a che fare, in realtà, è stato lui a determinarli, ed è lui, ora, chiamato a risponderne. L’irresponsabile Turetta comincerà, sperabilmente, il doloroso, lungo apprendistato verso la responsabilità tramite l’espiazione della giusta pena. Il ventiduenne andato in pezzi come un bicchiere infranto, colui che voleva uccidersi dopo avere commesso il delitto ma, dice, non ha avuto il coraggio, forse prenderà confidenza col significato vertiginoso, ultimo, estremo, delle parole che il giudice istruttore, in “Delitto e castigo”, rivolge al duplice femminicida Raskol’nikov: «Perché no, anche la sofferenza può essere una buona cosa. Allora soffrite!».

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