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Femministe, il vademecum: "Sciopero riproduttivo, non pulite casa"

Alessandro Gonzato
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Te le do io le mimose! Ieri, 8 marzo, le femministe di “Non una di meno” hanno indetto lo “sciopero riproduttivo”. Mariti e compagni in bianco? Chissà. Consultiamo il profilo Instagram del movimento. Un attimo: no. Forse i partner l’hanno sfangata. Lo «sciopero riproduttivo», leggiamo, ha riguardato «il lavoro di cura», ossia «chi ha sulle spalle il maggior carico di lavoro domestico». Appetiti soddisfatti, quindi – almeno speriamo – ma dato che per le turbo-femministe sono le donne e solo le donne in questa società patriarcale e fascista a occuparsi della casa, beh, i maschi ne devono aver fatte di lavatrici per arrivare a godere dei piaceri della carne. Comunque conta il risultato.

Lo “sciopero riproduttivo” è solo una delle forme propagandate da “Non una di meno”, che in previsione della festa della donna celebrata tra un insulto alla Meloni e un altro a Israele ha pubblicato un vademecum. Leggiamo. C’era (e c’è) lo sciopero “dal lavoro produttivo” (ma si può scioperare anche da quello improduttivo), e chi non ha potuto aderire allo sciopero sindacale è stato invitato a «vestire di nero». E il pericolo fascismo? Aspettate: «Puoi vestire di nero e indossare qualcosa di fucsia». Ah, ecco! Altri consigli per combattere il sessismo: «Puoi parlare dello sciopero con colleg* (sì, con l’asterisco politicamente fluido)», e ci mancherebbe altro. Ma – attenzione – si può anche «impostare una risposta automatica alla tua e-mail in cui dichiari che in quella giornata non lavori perché aderisci allo sciopero transfemminista». Che poi è quello che fanno già i colleghi lavativi, anche nelle redazioni dei giornali: ma lasciatemi “Sono qui stare”.

 


Lo sciopero dell’8 marzo “contro la violenza patriarcale” è stato lanciato con un volantino in cui campeggiano tre donne col pugno chiuso e sullo sfondo un’enorme bandiera della Palestina, a cui le transfemministe hanno inneggiato per le strade. La Palestina, uno dei luoghi del mondo in cui le donne vengono trattate peggio, dove sono considerate inferiori alle bestie. A proposito, lo sciopero transfemminista ha riguardato anche i consumi: «Non acquistare prodotti di origine israeliana e di aziende complici del genocidio in Palestina e dell’apartheid israeliana». Andiamo avanti. Nella sezione “altre forme di sciopero” compare anche quello “di genere”. In cosa consiste? «Rifiutati di fare tutto ciò che ti viene imposto sulla base del tuo genere, a casa e sul lavoro».

 

 

E però come la mettiamo con chi la mattina si sente maschio, il pomeriggio femmina o viceversa? E i non-binari? Qui, col gender fluid imperante, si rischia che nessuno faccia niente, la decrescita infelice. Il vademecum sembra scritto dal più pigro dei percettori del reddito di cittadinanza in versione arcobaleno militante: «Puoi fare tutto con estrema lentezza e applicare alla lettera tutti i regolamenti in modo da lavorare il meno possibile». Tra le doglianze di “Non una di meno” «il sovraccarico del lavoro di cura gratuito e malpagato che pesa soprattutto su donne, lesbiche, froce, persone bisessuali, trans, queer, intersex, asessuali, sulle persone povere, anziane, migranti e seconde generazioni, con disabilità, minori, sexworkers e detenute». Nessun altr*?

 

 

 

 

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