Alla fine dell'Io si incontrano tutte le religioni

Un saggio individua il punto di contatto tra Cristianesimo, Buddismo e Induismo: la necessità di emanciparsi dall'ego
di Pietrangelo Buttafuocodomenica 22 giugno 2025
Alla fine dell'Io si incontrano tutte le religioni
4' di lettura

L'animale che ci porta più velocemente alla perfezione è il dolore. Pertinenza della religione è la perfezione, un anello che s’inanella nell’altro, ed è di Meister Eckhart questa immagine dell’animale – quello che, cantando Franco Battiato – «si prende tutto, anche il caffè». Una promessa di perfezione che Oltre il cristianesimo, un saggio di MarL’ co Vannini – filosofo, massimo interprete di Meister Eckhart – riconduce a una rete che connette induismo, buddhismo e cristianesimo delle origini. Più correttamente, lega proprio la figura del Nazareno alle due grandi religioni d’Oriente separando drasticamente gli insegnamenti di Gesù, il figlio di Maria, dalla Chiesa che sul suo nome fu istituita.

La re-ligio altro non è che il tenersi insieme – il legarsi – delle cose terrene e celesti e oltre il cristianesimo, nell’attraversamento della confessione sorta dalla testimonianza di Gesù, c’è la promessa di liberazione. Da il sé che è in noi, da ciò che ci rende schiavi dalle passioni. Agli antipodi della perfezione c’è la schiavitù, l’estremo del dolore. Edito da Lindau, il volume è un’accurata ricerca di ciò che unisce luoghi e concezioni apparentemente molto lontani tra loro, senza dimenticare echi filosofici che spaziano da Eraclito a Parmenide, da Platone ad Agostino, da Hegel, infine, a Schopenhauer e Nietzsche.

Vannini divide il suo lavoro in tre sezioni: la prima è dedicata a Meister – magister – Eckhart, il domenicano tedesco coevo di Dante, accusato di eresia nella bolla papale “In agro dominico” del 1327, di cui Vannini ha curato per Bompiani l’edizione italiana di tutte le sue opere scritte in tedesco e in latino. La seconda parte illustra il contributo delle Upanishad– la lunga elaborazione speculativa della tradizione induista – e del buddismo, alla costruzione «del primato della conoscenza, come distacco e rimozione di ogni forma di attaccamento». L’ultima parte del libro, un vero e proprio romanzo, è dedicata al monaco benedettino “cristiano-hinda” Henri Le Saux, nato in Bretagna nel 1910, attratto dalla spiritualità indiana tanto da costituire un ashram – una fondazione monastica – in cui concilia, riuscendoci perfettamente, la regola dettata da S. Benedetto alla spiritualità indù.

Quello che sorprende è la capacità di Vannini di trovare echi e rimandi in questi ambiti così lontani nel tempo e nello spazio, oltre che, ma solo apparentemente, nei contenuti. Henri Le Saux, appunto, vive da cristiano la conoscenza indù, da indù impara a liberarsi da se stesso e muore da benedettino senza mai smarrire – nella eterodossia di una scelta spirituale ed esistenziale – l’ortodossia del suo stesso battesimo in Cristo. Ciò che emerge nel lavoro di scandaglio teoretico di Vannini – in questo assolutamente coerente al suo percorso di esegeta della mistica – è l’idea che l’uomo, anche il cristiano incontrando l’hindutva (l’induità) oltre l’India, debba riuscire a rinunciare al suo ego, a spogliarsi da qualsiasi desiderio, a dominare se stesso per diventare Dio.

Spoglio da ogni desiderio, distante da se stesso e dal proprio ego, nel “farsi” della “filosofia” Vannini domina l’impegnativa questione del “diventare Dio”. Chi ha il privilegio di assistere alle sue lezioni, odi seguire le sue conferenze, gode dell’esperienza entusiasmante di un ascolto profondamente filosofico senza mai un momento di ubbia erudita. Maestro nel senso compiuto dell’espressione, Vannini può ben vantare di esercitare la paideia più che la fuffa acculturata.

I copiosi rimandi nel libro qui proposto sono, infatti, viva vertigine. Il Gesù su cui Eckhart si sofferma, è colui che dice «Chi mi vuol seguire rinunci a se stesso» o ancora «Chi vuol penetrare nel fondo di Dio, deve penetrare in ciò che ha di più intimo, giacché, nessuno conosce Dio se non prima conosce se stesso». Il peccato vero in cui incorre l’uomo è l’amor sui. Il sapersi distaccare da sé, invece, è quello che la tradizione spirituale – tanto d’Occidente che d’Oriente – chiama “mors mystica”, ovvero morte dell’egoità.

Uccidere il proprio io, liberarsi dalla schiavitù delle passioni, è l’esatto attraversamento dell’esperienza di religione. Come già indica Spinoza nel suo itinerarium mentis, attraverso una conoscenza chiara e distinta che giunge all’amore intellettuale di Dio: la beatitudine. Trovare il silenzio interiore, mettere l’anima in ascolto, «in interiore homine abitat veritas», dice Agostino. Ecco la disciplina – una pratica mistica, propria del “cristiano-hinda” Henri Le Saux – che porta a tacere la menzogna che ci abita, ossia la considerazione di un dio esterno a noi stessi, nell’attico del cosmo sopra di noi, “un Dio lassù”. Idea, questa – “un dio capriccioso che crea un essere al di fuori di se stesso e poi, eventualmente, lo distrugge” – impossibile da pensare secondo le Upanishad.

Un dio che se ne sta lassù, dunque, che secondo Vannini altro non è che antropomorfismo, ma anche fonte di stabilità sociale, come appunto è la Chiesa come istituzione. È il dio sopra, collocato in alto, per come, nei secoli, si è costituita la teologia biblica: «l’invenzione di un Dio finalizzata all’invenzione e al primato di un popolo, che poi ha fatto da modello al cristianesimo e all’islamismo».

Del resto è stato Nietzsche a dire: «In fondo c’è stato un unico cristiano ed è morto sulla Croce». Pertanto la Chiesa nasce, per venire incontro al bisogno dell’uomo di consolazione.
Finendo per dare valore all’egoità, una sorta di ideologia dell’Io per niente differente dall’ateismo dove è d’obbligo il desiderio, quello che etimologicamente è de-sidera, ovvero lontananza dalle stelle – sidera – nella quale logica predomina il tema del merito e della ricompensa o del peccato e della pena. Quell’Aldilà, insomma, che si deve pur sempre meritare, pur gravati dall’Io il cui esito – e Nietzsche col suo Zarathustra ci avvisò – è pur sempre raglio: Io-Io-Io!

Ps: A proposito di Zarathustra. Gli alunni di Vannini, e i suoi lettori, lo sanno: «Quel libro, lo Zarathustra, è il Quinto Evangelo!». Laddove resta saggio colui che si libera dal turbamento prodotto dalla dualità, «avendo superato ogni coppia di opposti, imperturbabile nella buona e nella cattiva sorte». Giusto animale che sa condursi più velocemente alla perfezione, redimendosi dal dolore.

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