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Pier Francesco Pingitore: "La Rai ci ha cacciato. Ma tutti zitti..."

Daniele Priori
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«Noi siamo stati cacciati dalla Rai dei Professori (primi anni 90, ndr), ma nessuno si stracciò le vesti...» Pier Francesco Pingitore, giornalista, regista, sceneggiatore è il padre del Bagaglino, compagnia rimasta legata per sempre al Salone Margherita di Roma che dopo la pandemia non ha più riaperto. Ha 88 anni e un piacere nel conversare con un’arguzia che davvero si starebbe ad ascoltarlo per ore senza annoiarsi. Amante della bella parola e del verbo messo al punto giusto, in questo frangente della sua vita ha ritrovato in Pasquino e nelle pasquinate la formula migliore per raccontare l’oggi. Tanto da ricavarci un libro: Le ballate di Pasquino in cui propone al lettore una serie di Cronache satiriche in rima romana, dal fottuto Covid alla fottutissima Guerra.

Pier Francesco Pingitore, una firma famosa. Riconosciuta e riconoscibile in molti ambiti. Ci spieghi anzitutto perché tutti la chiamano Ninni.
«È una storia tenera e banale. Mio fratello più grande di qualche anno, non sapendo dire il mio nome, prese a chiamarmi Ninni. È rimasta così da tempo immemore».

 


Ci racconti il rapporto lungo mezzo secolo con il Salone Margherita, adesso chiuso.
«È stato chiuso dalla Banca d’Italia che ne è proprietaria e vani sono stati tutti i nostri tentativi di tornare a fare spettacolo lì. È ulteriormente grave che la Banca d’Italia che è un ente pubblico privi Roma di uno dei suoi più bei teatri. Esemplare unico in stile liberty».

Voi siete approdati lì perché altri artisti non volevano lavorarci, è vero?
«Guardi, il Bagaglino ha fatto i suoi spettacoli dal 1965 in una cantina di vicolo della Campanella. Siamo arrivati al Salone Margherita nel 1972 in cerca di un posto che potesse evitarci i reumatismi. Quando arrivammo lì quel teatro era completamente decaduto. Noi lo portammo a un fulgore che forse non aveva mai conosciuto prima con spettacoli di cabaret e poi per la televisione che raggiunsero picchi di 14 milioni di ascoltatori quando venne ospite Andreotti.
L’ultimo spettacolo è stato La presidente nel quale immaginavamo che Valeria Marini potesse diventare presidente della Repubblica. Una sorta di vaticinio per quello che che è accaduto poco dopo con l’arrivo della Meloni a Palazzo Chigi».

Lei è l’autore di un brano che ha fatto epoca: I ragazzi di Buda. Lo sente ancora suo quel pezzo o l’ha lasciato andare?
«Lo sento mio. Scrissi quel pezzo nel 1966, a dieci anni dai fatti di Ungheria, quando la rivolta degli ungheresi contro i sovietici era stata un po’ digerita dall’opinione pubblica italiana. Questa canzone fu cantata nel nostro cabaret in cantina, ma ebbe ripercussioni enormi arrivando nelle università e negli stadi. Fu cantata addirittura a Budapest. Mi mandarono un video in cui gli alunni delle scuole medie la cantavano metà in italiano, metà in ungherese. Ebbi anche un’onorificenza come cavaliere d’Ungheria».

Tornando al Bagaglino. Le donne voi le avete omaggiate. «Meglio se belle» ha detto lei in una intervista. E le donne brutte?
«Ma scusi chi è che preferisce una donna brutta a una bella? Si può trovare più simpatica, più intelligente, è ovvio. Ma anche la bellezza costituisce valore. Oppure dobbiamo essere ipocriti? C’è questa condanna all’uso di un linguaggio politicamente corretto che è la morte del linguaggio, dello spirito, del divertimento. Il linguaggio è bello proprio perché è vario. Si avvale di espressioni che sono anche dure, pesanti o ideali e super leggiadre. La presunzione attuale di rovesciare tutti i canoni oltre che ipocrita mi pare grottesca».

Tra tutte le vedette del Bagaglino. Ce n’è stata una alla quale si è sentito più legato?
«Se rispondessi non potrei più uscire di casa. Tengo a tutte le vedette, ma anche alle ballerine e le cantanti che abbiamo avuto. A partire da Gabriella Ferri. L’incontro con lei fu molto importante per me e per il Bagaglino stesso. Da lì partì un filone importante. Le stesse canzoni romane che Gabriella cantava nella nostra cantina, magari divenute desuete all’epoca, grazie alla sua rilettura acquisirono un tono di drammaticità e romanticismo che le fece arrivare a toccare l’anima di tantissima gente».

Sulla vicenda che negli ultimi anni ha visto protagonista Pamela Prati si è fatto un’idea?
«Io sono convinto che sia stata carpita la sua buona fede. Che lei sia stata “intortata” in una storia difficile da credere, ma che somiglia a tante altre storie. Alcune le ho anche conosciute. Persone indotte a innamorarsi e mandare quattrini a uomini e donne inesistenti.. Non credo che lei fingesse, Anche perché non ne aveva nessuna utilità. Pensi che quando iniziò questa sua disavventura, aveva con me un contratto. Una settimana prima mi disse confidenzialmente che doveva sposarsi. Non credo di sbagliarmi».

Nel suo libro c’è una satira intitolata Il catalogo dei Dodici Presidenti. Ne ha conosciuto personalmente qualcuno degli inquilini del Quirinale?
«Conobbi Leone. Me lo presentarono degli amici prima che diventasse presidente e poi Cossiga col quale ci fu episodio divertentissimo. Lui ammirava moltissimo Manlio Dovì che lo imitava. Non potendo venire al Salone Margherita invitò Manlio al Quirinale con tanto di truccatore al seguito per farlo esibire di fronte a lui. Si divertì molto e gli regalò delle cravatte».

Quindi dalla Rai vi mandarono via dopo la fine del mandato di Cossiga.
«Sì con la Rai dei Professori. L’unico che ci diede la solidarietà fu Michele Santoro, dalle cui idee eravamo lontanissimi, ci invitò in trasmissione. Fu Angelo Guglielmi, anche lui lontanissimo dalle nostre idee, a spiegare ai nuovi dirigenti che avrebbero perso una bella fetta di inserzionisti. Così ci richiamarono e facemmo una stagione trionfale con Bucce di banana. Ma poi ci volle Berlusconi e, ammaestrati dall’esperienza, passammo a Mediaset».

E lì conobbe anche il Cavaliere...
«Sì, lui è un fuoriclasse. Un uomo di una levatura diversa che ha lasciato il segno sulla storia d’Italia. Ma le racconto un aneddoto sul suo sosia...» Dica... «Era un venditore di scarpe che gli somigliava moltissimo. Solo che non potevamo farlo parlare in scena perché aveva un fortissimo accento romano. Così gli dicemmo di sorridere soltanto. Gli facemmo rifare anche i denti ma non si trovò bene. Ricordo che si lamentava e mi diceva: “Ah dottò, così nun posso più né magnà né ride».

Cosa le manca di più del Bagaglino?
«Il più grosso dispiacere per tutti è stata la morte di Oreste Lionello, un fratello per me. Come diceva Giorgio Albertazzi, Oreste è stato uno dei migliori attori italiani per capacità interpretativa e autoriale, un genio del doppiaggio. Poteva fare ogni personaggio. Lui non somigliava a nessuno, ma era come se somigliasse a tutti. Questo senza nulla togliere al talento e alla grande professionalità di artisti come Leo Gullotta, Pippo Franco e quella maschera latina, tipo maccus della commedia plautina che era Martufello. E poi avemmo anche Bombolo. Quando lo vidi entrare per la prima volta capii che ci trovavamo di fronte alla scoperta di un comico vero. Bastava che si mettesse seduto e già faceva ridere».

 

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