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Luca Zaia, le differenze con Gianfranco Fini: perché la sinistra non riuscirà a usarlo contro Salvini

Gianfranco Fini

Giovanni Sallusti
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La parola d'ordine è già partita, lo avete notato? Ma forse non è nemmeno necessario, basta un riflesso condizionato del mainstream: ora, solo elogi a Zaia. Il Doge, per anni trattato come un bifolco dalle comari del pensiero unico, oggi di colpo è diventato il volto della destra presentabile, seria, di governo. Nelle analisi dei giornaloni, addirittura, diventa quello che ha battuto Salvini, benché sia un tesserato della Lega, e così per tutto il giorno sui siti "d'informazione", adepti del teorema del dottor Goebbels («ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità»).

È in pieno corso, insomma, un'operazione-Fini, col trionfatore delle elezioni venete che, nelle intenzioni di lorsignori, dovrebbe diventare quel che fu il capo di An nei confronti di Berlusconi: un utile idiota da brandire contro il leader dell'altro campo. Il problema, esimi commentatori scriventi dagli attici romani, è che Zaia non è Fini. Ma voi proprio non riuscite a capirlo, chi sia Luca Zaia, e soprattutto cosa rappresenti quel 76% che ha trasformato il voto nella terza regione più produttiva d'Italia in una sua glorificazione personale. Eppure, ve l'ha spiegato lui stesso, appena le proporzioni non della vittoria, ma dell'apoteosi, sono emerse chiaramente. «Il nostro obiettivo è uno solo, portare a casa l'autonomia». 

 

 

Ve lo sta dichiarando con tutta la sua Regione dietro, una Regione che ogni anno si vede sottrarre 16 miliardi di euro per il mantenimento dello Stato centrale, e con alle spalle anche il referendum del 2017, che fu un plebiscito per l'autonomia (affluenza al 57%, vittoria dei Sì col 98%). Si può dire che la parabola politica stessa di Luca Zaia coincida con questa questione, che per un tale Gianfranco Miglio era la madre di tutte le questioni: la messa in discussione dell'assetto ipercentralista, sprecone, predatorio della Repubblica. È inutile che tiriate il Doge dentro il teatrino delle figurine di partito, quando simboleggia la battaglia contro quello stesso teatrino. Ma ormai lo sanno anche loro, che non possono non fare il passo. Non possono non concedere una forma di autonomia, per quanto blanda, normalizzata dal rito capitolino, a un territorio che ogni volta la invoca così compattamente nelle urne.

Diversamente, avrebbero una mina sociale in una delle (poche) regioni che ogni fine mese pagano il conto del suddetto teatrino. È qui, che potrebbe scattare il piano B giallorosso (le "menti" demogrilline, ammesso esistano, ci starebbero già lavorando). Concediamogli una forma iperedulcorata di autonomia, contrattata fino alla nausea al nostro tavolo, e lo disinneschiamo. Gli togliamo l'argomento, e di lui ci resterà un guscio vuoto, buono solo da scagliare contro il Capitano leghista, un Fini auspicabilmente più performante, appunto. Di nuovo, non hanno capito. Se rompi l'argine dello statalismo, anche di una fessura, anche con qualche competenza in più lasciata scivolare obtorto collo da Palazzo Chigi verso il Canal Grande, arriva la piena della libertà. Dal mattino dopo, tutti i governatori delle regioni virtuose, oggi saccheggiate fiscalmente per pagare i sussidi altrui, presenterebbero il conto. Non solo Attilio Fontana, per intenderci, ma anche Stefano Bonaccini, che sul tema ha sempre mostrato un laico pragmatismo, molto più attento alle lagnanze delle imprese emiliane che ai tic centralisti del Politburo piddino.

 Ergo, anche una minima concessione al Doge (stra)vincente farebbe saltare il sistema. Ma dopo l'incoronazione democratica del 76%, non possono non prevedere una minima concessione. È questa, la contraddizione in cui sono intrappolati i gattopardi della conservazione romana da quando è stato ultimato lo spoglio elettorale in Veneto. Allora, forse non è un caso che la buttino in politica politicante, che vogliano venderci Zaia come nemico di Salvini, invece che di Conte, Zingaretti, Di Maio e anche di tutti quelli (ce ne sono, purtroppo, e in sovrannumero) che nel centrodestra remano perché nulla cambi, perché si trascini ancora il doppio binario della rapina fiscale a Nord e dell'assistenzialismo feudale a Sud. Oscuramente, intuiscono che Zaia in realtà è il più pericoloso di tutti, perché annuncia la fine del sistema su cui loro campano, sdottoreggiano, prendono voti. La fine della mangiatoia italica.

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