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Giuseppe Conte e M5s, il timore: e se Mario Draghi non andasse al Colle? Cosa c'è dietro gli elogi del premier ai partiti

Fausto Carioti
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Ieri si è capito quale Mario Draghi avremo da qui al 3 febbraio, quando finirà il "semestre bianco" e inizieranno le votazioni per il successore di Sergio Mattarella. Ed è un po' diverso dal Draghi che l'Italia si era dipinta, il decisionista che silura uno dopo l'altro, senza chiedere permessi, Angelo Borrelli, Domenico Arcuri, Mimmo Parisi e Bruno Tabacci (il sottosegretario che ha appena "rinunciato" alla delega sull'aerospazio). Che sulle vaccinazioni il presidente del consiglio non guardi in faccia nessuno, già si sapeva. Non ha stupito quindi che sia tornato sull'argomento, appellandosi a tutti gli italiani: «Vaccinatevi e rispettate le regole». Accanto a questo, però, si è visto qualcosa di inedito: un approccio doroteo ai politici che lo sostengono, da consumato amante del compromesso.

 

 

Evidente quando ha assicurato che i partiti, «anche se può sembrare strano», anziché per il proprio tornaconto «lavorano per il bene degli italiani», e subito dopo ha aggiunto che «l'orizzonte del governo è nelle mani del parlamento». Ancora più smaccato quando, col pensiero rivolto ai Cinque Stelle, ha stupito dicendo di condividere «in pieno» il «concetto alla base del reddito di cittadinanza». Tutta forma (la sostanza sono le dodici "questioni di fiducia" con cui ha blindato i propri provvedimenti in parlamento e le altre che presto seguiranno), ma è una forma che ha colpito. L'ultima frase, peraltro, l'ha formulata in un modo che non lo impegna affatto, visto che il «concetto alla base» del reddito di cittadinanza prevedeva l'inserimento nel mondo del lavoro dei percettori dell'assegno, che non è mai avvenuto a causa del modo in cui lo strumento è stato disegnato. Tanto che lo stesso Draghi non ha escluso di riformarlo (anzi). Però ieri si è capito che lo farà con calma, non subito. Quando? Di certo non nel periodo da qui a febbraio, durante il quale si guarderà bene dall'eccitare i malumori che covano dentro ai partiti, in particolare tra i grillini appena passati sotto la guida di Giuseppe Conte.

 

 

Almeno due buone ragioni gli consigliano di fare così. La prima è proprio la natura di questo semestre, nel quale non possono essere sciolte le Camere e dunque i partiti e i parlamentari che vorranno tirare la corda potranno farlo senza rischiare di tornare a casa, almeno sino alla prossima primavera. Un bell'incentivo ad alzare i toni, insomma. Ed i primi tentati di approfittarne sono proprio Conte e i suoi, che hanno mal digerito le regole sulla prescrizione introdotte da Marta Cartabia per cancellare quanto fatto da Alfonso Bonafede. Cambiare adesso il reddito di cittadinanza sarebbe come gettare benzina sul loro fuoco, nel momento in cui l'esecutivo è più vulnerabile. L'altra ragione riguarda Draghi e le sue ambizioni, che solo lui conosce. Ma i partiti che ieri ha difeso in quel modo così poco credibile e il parlamento dinanzi al quale si è pubblicamente inchinato sono gli stessi che eleggeranno il prossimo capo dello Stato. E il peso maggiore, se non esploderanno definitivamente da qui ad allora, lo avranno proprio i Cinque Stelle, che oggi contano 234 parlamentari, quasi un quarto dell'assemblea chiamata ad eleggere il presidente della repubblica. Inimicarseli ora, per Draghi, sarebbe autolesionista anche per questo. Ci sarà sempre tempo dopo, semmai, se al Quirinale andrà qualcun altro e non lui.

 

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