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Fabio Rampelli, il trionfo: "Lingua italiana a rischio", chi si schiera con lui

Massimo Arcangeli
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Durante il secondo governo Berlusconi l’onorevole Andrea Pastore, nel lanciare la proposta di istituzione di un Consiglio Superiore della Lingua italiana (CSLI), aveva denunciato l’oscurità del burocratese, responsabile di una «sindrome di smarrimento» che colpiva stuoli di inermi cittadini. Il senatore stigmatizzava soprattutto l’impigrimento traduttorio, il quale, complice lo snobismo esterofilo, lasciava troppo spesso preferire l’inglese all’italiano. Niccolò Machiavelli – se è l’autore del Dialogo (o Discorso) intorno alla nostra lingua – aveva già compreso che una lingua, entro certi limiti, non viene danneggiata più di tanto dall’importazione di vocaboli stranieri. La sua visione del problema è lucidissima: i fondamenti di un idioma sono la pronuncia e le strutture fono-morfologiche (potremmo aggiungervi, ovvio, quelle sintattiche) più che i fatti di vocabolario: ciò vale a maggior ragione per il comparto dei sostantivi, che viaggiano in genere con gli oggetti e i concetti ai quali rinviano e ben sappiamo, quando l’oggetto del contendere è l’invadenza della lingua inglese, che l’obiettivo polemico sono in genere proprio le forme sostantivali (e aggettivali).

 

 

 

Se una lingua fa man bassa di voci forestiere può rischiare alla lunga di rovinare solo se è l’uso reale, quello della conversazione ordinaria fra persone “normali”, ad accoglierle. La più grande risorsa di una lingua è la sua forza assimilatrice, secondo Machiavelli (o chi per lui), che a un certo punto immagina di parlare con Dante. Vuole fargli ammettere che la Commedia è scritta in fiorentino e non in una lingua “curiale” e, dopo averlo messo alle strette, consuma così la sua vittoria sull’avversario: «Io voglio che tu consideri come le lingue non possono esser semplici, ma conviene che sieno miste con l’altre lingue. Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, ed è sì potente, che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro». Sebbene però, se si vuole esercitare un’efficace azione di “controllo” sul nostro idioma, serva a poco dichiarare di volersi sbarazzare di premier o question time, recovery fund o spending review, mission o lockdown, a tutto c’è un limite; lanciare sterili anatemi, bandire inutili crociate, attestarsi su indifendibili posizioni di retroguardia contro l’invasore inglese è un conto, denunciare l’abbondante superamento del livello di guardia della sua presenza è un’altra faccenda.

 

 

 

Quando poi la supina accettazione dell’anglo-americano, anziché la civetteria esterofila spesa in privato, impegna territori decisivi per gli equilibri linguistici interni di una nazione, o s’impone con l’invadenza di un discorso pubblico senza alternative, ci si dovrebbe equipaggiare di tutto punto per combattere lo straniero. Ha ragione Claudio Marazzini nel denunciare il rischio che la lingua italiana, in contesti istituzionali o “ufficiali” (un bando di concorso, una domanda di finanziamento o un corso universitario), possa essere progressivamente emarginata. L’italiano è una «lingua senza impero»: non ha avuto bisogno di bombardamenti, incursioni o invasioni per farsi largo tra le popolazioni e le nazioni con cui è entrata in contatto, e non ha dunque nulla da spartire con la lingua dei nostri cugini francesi e con la loro politica “interventista”, avviata dall’uso della langue du Roi in ambito amministrativo durante l’Ancien Régime. Una «lingua senza impero» ha però molto a che fare con la cultura, la civiltà, la coscienza, ed è proprio in nome di questi tre concetti che dovremmo cominciare a intraprendere azioni concrete a tutela del nostro idioma. La politica linguistica troppe volte disattesa o rinviata s’ha da fare. E, boutade su sanzioni pecuniarie a parte, s’ha da fare ora. 

 

 

 

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