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Immigrazione e scontro culturale, il diritto di difendere la propria identità

Francesco Carella
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Non vi è dubbio alcuno che l’eccezionalità dell’immigrazione irregolare imponga in primo luogo una risposta immediata e concreta sia sul versante del salvataggio di vite umane che sul terreno di una dignitosa accoglienza. Ed è ciò che il nostro governo compie quotidianamente. Dopodiché non si può continuare a sfuggire da una seria riflessione sulle conseguenze che gli sbarchi irregolari di massa sono destinati a produrre nel lungo periodo.

In tal senso, già nei primi anni ’90 Samuel Huntington, in un saggio pubblicato su Foreign Affairs, parlava di «scontro di civiltà». Atteso che dacché è stato storicamente possibile non poche persone hanno scelto di spostarsi da un luogo a un altro, la novità del nostro tempo è rappresentata dal fatto che il trasferimento Sud/Nord interesserà nei prossimi anni, secondo quanto prefigurano i demografi, milioni di africani ed asiatici - perlopiù di tradizione islamica- con prevedibili ricadute sul terreno culturale e civile non irrilevanti.

 

 

È sicuramente vero – come sostengono i sostenitori delle porte aperte – che i fenomeni migratori vanno ricondotti (al netto di chi fugge da guerre e persecuzioni) nell’ambito delle scelte che ciascun individuo libero ha il diritto di esercitare, decidendo di abbandonare il Paese di origine per sceglierne un altro. Ciò che si trascura di ricordare è che tale diritto, posto in termini assoluti, risulta incompatibile con un altro, ovvero con il diritto del Paese che accoglie di decidere come, quando e chi ricevere.

LA VERITÀ DI KANT - Nasce da qui la legittimazione di una delle funzioni più delicate che uno Stato sovrano è tenuto a svolgere vale a dire «assicurare la difesa dei confini nazionali da invasioni illegali e arbitrarie». Scrive Immanuel Kant in Per la pace perpetua che «ospitalità significa che lo straniero ha il diritto di non essere trattato in modo ostile, ma il diritto di abitare dove si vuole sulla Terra incontra un limite nella volontà dell’ospitante e nella sua benevolenza».

 

 

A tal proposito, il filosofo Karl Popper, dopo avere ribadito che le democrazie liberali non possono che essere aperte, si chiede, in un suo breve saggio, «fino a che punto sia lecito spingersi su tale terreno, senza rischiare di creare i presupposti per la propria autodistruzione. Non può esserci società liberale senza pluralismo e tolleranza».

Si tratta di concetti poco presenti, come si sa, nella cultura e nella tradizione del mondo musulmano. Sottoporre a rigidi controlli i flussi migratori verso le nostre coste, come l’Italia sta faticosamente e in perfetta solitudine cercando di fare, significa avere piena contezza che la posta in gioco in questa fase storica è molto alta e che riguarda il futuro, nemmeno tanto lontano, della civiltà occidentale fondata sui diritti e sulla libertà individuale. Purtroppo, una tale consapevolezza sembra latitare nei Paesi dell’Unione europea a partire, come stiamo vedendo in questi giorni, dalla Germania finanziatrice delle Ong. Dobbiamo riconoscere che aveva visto giusto qualche anno fa l’autorevole arabista, Bernard Lewis, quando in un’intervista al giornale tedesco Die Welt affermò che «l’Europa diventerà il Nord del Maghreb, avendo rinunciato a difendere la propria identità». 

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