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Il pm a Belpietro: Silvio vittima della mafia

Il magistrato palermitano: è più facile indagare su di lui che sui politici della trattativa, ma entro un mese li rinvieremo a giudizio

Lucia Esposito
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Non sono un appassionato di mafiologia. Anzi, a dire il vero le indagini labirintiche palermitane un po' mi annoiano, come quei romanzi dove la storia procede contorta senza mai arrivare alla fine, rendendo faticoso seguirne la trama, tanto è disseminata di sorprese e di doppie o triple verità. Però questa faccenda della trattativa fra Stato e mafia, soprattutto per la piega presa nelle ultime settimane con il coinvolgimento degli ex ministri Conso e Mancino e le intercettazioni che lambiscono il Quirinale, un po' mi ha incuriosito. Dopo anni in cui tutto sembrava girare intorno a Silvio Berlusconi, quasi che fosse il boss dei boss oltre che il mandante delle stragi, ecco spuntare una pista tutta diversa, che mette nel mirino  anche qualche padre della patria. Dunque mi sono deciso a prendere l'aereo per il capoluogo siciliano e ad andare ad ascoltare Antonio Ingroia, il magistrato palermitano più rappresentativo degli ultimi vent'anni di inchieste su cosche e politica, oltre che grande accusatore di Marcello Dell'Utri e quindi, per riflesso condizionato giudiziario-giornalistico, anche del Cavaliere. L'intervista si è svolta ieri un po' sulla macchina del pm, nel tragitto verso la Procura, e un po' al tavolino di un bar nei pressi del Palazzo di giustizia. E questa ne è la sintesi. Cominciamo dalla lettera di Marianna Scalfaro apparsa sul Corriere della Sera di ieri mattina. La figlia del defunto presidente della Repubblica nega il coinvolgimento del padre nella trattativa. Che ne pensa?   «È la lettera di una figlia che difende la memoria del padre e va rispettata. Io non commento fatti specifici che riguardano l'indagine. Quando tireremo le somme, se ci sarà una richiesta di rinvio a giudizio, troveremo il modo di far conoscere il punto di vista della Procura. Come noi interpretiamo le risultanze dell'inchiesta». Se Scalfaro fosse in vita lo convochereste per interrogarlo? «Lo abbiamo fatto. Mi pare che l'interrogatorio risalga a sei mesi fa, poco prima che morisse». Senta, mi spiega che senso ha tirar fuori una storia di vent'anni fa, con metà dei protagonisti che non ci sono più? Sapere o no se ci fu la trattativa e chi la condusse forse interesserà gli storici, ma non penso sia affare di tribunali. Anche perché non mi pare esista un reato di trattativa. Dunque? «Ma questa è una semplificazione linguistica dei giornali. Nessuno è indagato per aver trattato con la mafia. Il reato che la Procura sta perseguendo è quello di violenza o minaccia nei confronti di un corpo politico amministrativo ai fini di condizionarne l'esercizio. Noi riteniamo che il cosiddetto papello e tutte le altre ambasciate per influenzare le decisioni del governo costituiscano un reato. Questo ovviamente per quanto riguarda i mafiosi. Se poi ci sono uomini dello Stato o delle istituzioni che hanno consapevolmente indotto i mafiosi a certe mosse o hanno intermediato le richieste, rispondono di concorso nella minaccia e per questo noi li abbiamo indagati». Ministri che concorrono a minacciare il governo di cui fanno parte? «Non faccio nomi, ma la posizione dei minacciati è diversa. Sarebbe contraddittorio indagarli per concorso. Però potrebbe ricorrere un altro reato. È un po' come un commerciante sottoposto a estorsione che nega all'autorità di aver pagato: in tal caso, anche se vittima, risponde di falsa testimonianza». Uomini dello Stato, esponenti di governo che dicono il falso? «Attenzione. Noi non entriamo nel merito della scelta di trattare e di cedere. Accettare le condizioni della mafia può essere una scelta politica discutibile, ma penalmente non punibile. Quindi noi non perseguiamo chi ha preso questa decisione, ma chi l'ha imposta con le minacce». Ribadisco: roba preistorica. I mafiosi sono quasi tutti in galera, i protagonisti delle istituzioni in gran parte sottoterra. «Se c'è un reato, la Procura ha l'obbligo di perseguirlo. Nella fattispecie si prescrive in trent'anni, ne mancano ancora una decina. A meno che non venga posto il segreto di Stato».  Non era meglio lasciar fare a una commissione parlamentare?  Di Pietro ne ha proposta una ad hoc. «Noi accertiamo i reati, la verità storica non tocca a noi. Ad ogni buon conto non credo che serva un'apposita commissione, c'è già quella antimafia e, a questo proposito, devo dar atto al presidente Pisanu di aver affrontato il tema delle stragi e dei rapporti Stato-mafia. In vent'anni non era mai accaduto. Come cittadino e come magistrato  auspico che faccia gli accertamenti necessari senza scaricare tutto sui pubblici ministeri. Gli italiani hanno diritto alla verità giudiziaria, ma anche a quella storica».  Ne avranno anche diritto, ma la notizia dell'indagine palermitana, con il suo corredo di intercettazioni che sfiorano il Quirinale, non è stata accolta dagli applausi. Casini ha parlato di schegge impazzite della magistratura. Si sente una scheggia impazzita? «Il tiro al piccione contro i magistrati è uno sport diffuso. Ma credo che il leader dell'Udc non sappia di che parla. Non conosce granché dell'indagine, che invece è di grande serietà e rigore». Però deve ammettere che l'inchiesta non ha suscitato grande entusiasmo... «Diciamo pure  freddezza se non ostilità. Un clima non certo di incoraggiamento ad andare avanti nell'accertamento della verità. Anche se ho apprezzato le parole del presidente Napolitano nel passaggio in cui ha ribadito la necessità di sostenere la magistratura nell'accertamento della verità». Concludo il ragionamento: anche chi è più vicino alla Procura, stavolta è freddo. Forse è più facile indagare su Berlusconi? «Bella domanda. Diciamo così. La sua considerazione coglie un dato di fatto. Quali siano le ragioni non tocca a me valutarlo. Forse l'indagine è molto delicata, arriva dopo vent'anni dai fatti, l'ipotesi di reato è più raramente utilizzata. E poi c'è il coinvolgimento di persone come il professor Conso, che gode di stima unanime come studioso, stima alla quale io mi associo. È normale che ci sia sconcerto. Quello che chiedo per me e i miei colleghi è però un po' di rispetto per il nostro lavoro. Rispetto e pazienza. Conoscendo meglio le risultanze processuali, certi giudizi potrebbero rivelarsi prematuri se non avventati». E queste carte quando le vedremo?  «Quando ci sarà la chiusura delle indagini con le richieste di rinvio a giudizio. Se non ci saranno richieste istruttorie da parte dei difensori, prima delle vacanze di agosto ci saranno le richieste, in modo tale che l'udienza preliminare possa svolgersi dopo la sospensione estiva». Finora, tutte le volte che avete provato a coinvolgere i politici nelle inchieste di mafia non siete andati molto lontano. Siete stati costretti a fermarvi all'ambito locale. «Questa è la sua legittima opinione. Per Andreotti, fino al 1980 è stata riconosciuta la sua responsabilità». Non mi dica la solita cosa, fino all'80 mafioso e dopo no... «Ma è così...». Sentenza cerchio-bottista per nascondere la completa sconfitta della Procura.  «Questo lo dice lei». Come per Dell'Utri... «Anche se è un tasto dolente per noi, la sentenza d'appello ha riconosciuto che, fino alle soglie dell'impegno politico, il senatore del Pdl ha dato un contributo all'associazione mafiosa. Cosa nostra ha guadagnato denaro grazie a lui, estorcendo denaro a Berlusconi». Ma le sembra credibile? Uno è mafioso per vent'anni, poi da un certo punto non lo è più? «In questo concordo con il senatore Dell'Utri: ovviamente io penso che il suo ruolo non si sia interrotto. Sul piano logico è irrazionale. Ma la verità giudiziaria si costruisce con le prove e i giudici hanno ritenuto che per il periodo dal 1992 le prove non ci fossero: secondo me sbagliando». Prima le è scappato di dire che la mafia ha estorto denaro al Cavaliere: dunque l'ex presidente del Consiglio fu vittima di Cosa nostra. «L'ho scritto nella mia requisitoria. Non ricordo se usai il termine vittima consapevole o compiacente. Comunque vittima che, sottoposta a queste pressioni, com'è spesso abitudine italica, preferì trovare un accordo con i boss anziché rivolgersi alle autorità». Il ruolo di Berlusconi si esaurisce lì, per quanto riguarda i rapporti con la mafia? «Qui entriamo nel merito dell'indagine in corso e preferisco non parlare. Però posso dire che accanto all'estorsione di cui abbiamo parlato, ci sarebbe stato un altro tentativo di “estorsione” politica, quando Berlusconi era già presidente del Consiglio. Dell'Utri si fece portatore di questa minaccia e per questo è indagato».  Sempre a caccia di rapporti tra mafia e politica, eh? È un suo chiodo fisso: su MicroMega ha scritto che la mafia vincente sono i complici e che i sistemi criminali sono legati ai ceti dirigenti del Paese. «Il rapporto organico tra pezzi della classe dirigente e le “élite” criminali è provato. Durante tutte le stagioni storico-politiche del nostro Paese la mafia è stata sempre tollerata o usata. C'è un livello di compromissione delle classi politiche per i benefici che ne traggono politicamente. E un livello di compromissione delle classi finanziarie e industriali che così si procurano vantaggi economici. E, quando la magistratura alza il tiro e dai picciotti si passa a incriminare politici e imprenditori, si scatena la reazione. È successo con Falcone, è successo con Borsellino». È successo anche in questi giorni? «Succede sempre. Ho letto che il ministro Severino non è d'accordo con me. Tuttavia, sulla trattativa Stato-mafia io ho percepito - non nelle istituzioni, ma nel mondo politico - un clima non favorevole all'accertamento su quella stagione. L'Italia purtroppo preferisce verità dimezzate. Non ha un buon rapporto con la verità.  Non è  una questione che riguarda singoli esponenti o settori politici, ma una questione più complessiva. C'è una sorta di ostilità nei confronti della verità che non invoglia a parlare». A destra come a sinistra? «Non voglio apparire qualunquista, ma nel circuito politico, con le dovute eccezioni, prevale una certa allergia alla verità. Si lascia che la ragion di Stato prevalga sullo Stato di diritto». Senta, deve però riconoscere che nella ricostruzione di quella che lei chiama la trattativa Stato-mafia, qualche tassello non si incastra. Borsellino viene eliminato perché si oppone alla trattativa che ha per oggetto l'eliminazione del 41 bis. Ma la strage di via D'Amelio in  cui fu ucciso il suo collega risale a prima che il 41 bis entrasse in vigore. Anzi, fu introdotto proprio a causa di quell'attentato. Come facciamo con le date che non combaciano? «Stiamo entrando nel merito delle indagini e io su alcune cose non posso essere rispondere. Però tutto inizia con l'assassinio di Salvo Lima. L'uccisione del parlamentare non è l'inizio della trattativa ma è un omicidio di rottura dei rapporti con la classe politica. L'aggiustamento del maxi processo era fallito e la mafia voleva dare una sanzione. Cosa nostra è già dell'idea di azzerare i rapporti politici che non funzionano più e ricostruire. Del resto c'era già stato un segnale, quando nel 1987 le cosche voltarono le spalle alla Dc dando indicazione di votare per il Psi, guardato con interesse anche per il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati». Le date però continuano a non incastrarsi... «Ora ci arrivo. Prima ci sono gli omicidi e la ricerca di un nuovo equilibrio. Un nuovo patto di convivenza tra mafia e politica. Ma non è Cosa nostra che inizia a chiedere. Come rivela Totò Riina parlando con i suoi, dopo le prime stragi è lo Stato che si è fatto sotto e chiede ai boss cosa vogliono per smetterla. Si tratta di una specie di compromesso con il potere mafioso, tale e quale a quello del commerciante che dopo il primo avvertimento chiede qual è il pizzo per non aver distrutto il negozio. È un dialogo a distanza, tra molteplici intermediari. È da lì che viene fuori il famoso papello».  Ma lei ancora ci crede alla storia del patto scritto da Riina e finito nelle mani di Ciancimino? «Il papello è una verità giudiziaria acclarata per fonti orali. Semmai c'è da verificare cosa sia quello che Ciancimino sostiene essere il papello. Ci sono gravi dubbi sulla sua autenticità: abbiamo fatto decine e decine di perizie sulla scrittura dei capimafia e finora non abbiamo accertato chi l'ha scritto. Una cosa è però è certa, il contro papello, ossia le proposte di modifica alle condizioni da presentare allo Stato, fu scritto da Vito Ciancimino». Dica la verità, un po' le bugie di Massimo Ciancimino le pesano. Si è pentito di avergli dato retta? «No, affatto. Sapevamo che Ciancimino era da prendere con le molle. Una porzione delle sue dichiarazioni mantengono valore perché hanno riscontri specifici. Il resto no. Per le sue dichiarazioni nei confronti di Gianni De Gennaro è imminente la richiesta di rinvio a giudizio per calunnia». Che cosa ci ha guadagnato il figlio dell'ex sindaco di Palermo a parlare a vanvera e calunniare un servitore dello Stato? «A noi non ha mai chiesto nulla. Forse cercava legittimazione, diventare testimone della Procura di Palermo». Forse cercava un salvacondotto per salvare il patrimonio di famiglia che il padre aveva all'estero? «Allora è stato davvero ingenuo. I provvedimenti di sequestro e di confisca erano già in corso...». Alludevo ai soldi nascosti... «Probabile che lui abbia altro in giro, ma così ha attirato ancor più l'attenzione su di sé e se giungessimo ad identificare l'esistenza di altro denaro lo sequestreremmo». Ci sono delle indagini per rintracciarlo? «Sì, ma non posso dire di più». A proposito di pentimento nell'uso dei pentiti, ci sono stati eccessi? «Direi di no. I pentiti sono un male necessario, che ha dei costi, perché lo Stato rinuncia a perseguire  fino in fondo un criminale, concedendo sconti di pena. Sull'altro piatto della bilancia lo Stato deve però mettere le stragi e gli omicidi evitati e i sequestri di patrimoni mafiosi. Negli Usa, dove esiste la discrezionalità dell'azione penale, arrivano anche a concedere l'impunità al testimone protetto. Deve davvero dare tantissimo e se sbaglia la giustizia è implacabile» . E la giustizia italiana ai testimoni bugiardi che fa? «Il pentito è un'insidia. Scarantino per esempio è riuscito a mentire così bene da risultare un collaboratore attendibile e così si è arrivati a una sentenza che ha condannato anche innocenti. Ci è voluto Spatuzza per smontare Scarantino».  Che cosa ci ha guadagnato a raccontare bugie?  «Si tratta di capire se qualcuno lo aiutò nel depistaggio, se cioè ci sia stato chi abbia fabbricato a tavolino la falsa testimonianza. Oppure se, nell'entusiasmo di far confessare Scarantino qualcuno abbia esercitato una pressione al punto da indurlo a dire il falso». Torniamo all'inflazione di pentiti... «Forse prima del 2001, ora, con la nuova legge, siamo alla recessione». Non è pentito di aver usato i pentiti, ma almeno di essere andato al congresso dei comunisti italiani sì? «No, per niente. Io sono sempre disponibile a partecipare a un congresso di partito, a patto di parlare di giustizia e che nessuno mi tenda imboscate. Al magistrato deve essere riconosciuto di poter dialogare con la politica, anche partecipando a un congresso, senza che questo significhi uno schieramento con quel partito. Un medico ha diritto a esprimere le proprie opinioni sulla riforma sanitaria? E allora perché al giudice dev'essere negato?». Ma un medico poi non processa il leader politico che ha fatto la riforma... «Partecipando a un congresso non c'è adesione al partito, ma è un modo per esprimere un punto di vista, anche critico. E io la linea politica di Berlusconi in materia di giustizia non la condividevo». Però di definirsi un partigiano della Costituzione forse se lo poteva risparmiare... «Lo feci intenzionalmente, per suscitare un dibattito sui contenuti. Ma vista la reazione, se dovesse ricapitarmi non mi asterrei dal sostenere le mie tesi, ma userei delle espressioni che non possano essere enfatizzate». E la neutralità del giudice dove la mettiamo? «C'è una grande ipocrisia. Il magistrato deve essere imparziale nell'esercizio delle funzioni, ma non può essere neutrale di fronte ai valori». Ma se un giudice non ama una parte politica, poi riesce ad essere neutrale quando deve giudicare un esponente di quello schieramento? «Se è un buon magistrato sì». Senta, lei, oltre a fare il pm, negli ultimi tempi scrive libri, tiene conferenze, scrive sui giornali e adesso si è pure iscritto all'ordine dei giornalisti. Dica la verità, è stanco di fare il magistrato e si prepara a cambiare mestiere. «No, non sono stanco. È un lavoro che mi piace. Però sono curioso anche verso altre professioni e fino ad ora sono riuscito a tenere tutto insieme, sottraendo tempo alla mia vita privata».  Confessi: è tentato dalla politica. «Le ho già detto una volta: mai dire mai. Il diritto a fare politica vale anche per i magistrati. Non si possono tagliare i diritti. Ma se ci si schiera sotto una bandiera si deve sapere che è una strada senza ritorno».  E se furbescamente non ci si schiera, se si fa l'indipendente, senza candidarsi ma solo prestando servizio in una giunta o in un'amministrazione? «Intende dire se si è scelti per cooptazione del presidente o di un sindaco? È perfino peggio. Se ti candidi ti eleggono i cittadini, nell'altro caso sei cooptato da un uomo politico. Se non è zuppa è pan bagnato». Ultima domanda: ma secondo lei un servitore dello Stato tratta con i mafiosi senza informare i superiori o i responsabili politici? «Premesso che non si fanno i processi con il “non poteva non sapere”, le poste in gioco erano così importanti che è difficile immaginare che alcune iniziative siano state prese senza avvallo di qualcuno che stava in alto».  Fine del tempo a mia disposizione per fare domande. L'uomo che insegue i fantasmi che trattarono con la mafia deve tornare al lavoro. Per ora.    di Maurizio Belpietro    

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